«Sapere aude: abbi il coraggio di conoscere» – Immanuel Kant 

In un mondo sempre più assordato dalla velocità e dalla comunicazione istantanea, il pensiero profondo sembra spesso una reliquia del passato. Eppure, c’è chi continua a credere nella forza sovversiva della filosofia, nel suo potere di creare ordine nel caos, di fornire strumenti per decifrare la realtà e attraversare la complessità. Una di queste persone è Clementina Cantillo, 63 anni, professoressa ordinaria di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Salerno, recentemente eletta presidente della Società filosofica italiana. Un evento che assume contorni storici: è la prima donna a ricoprire questa carica in oltre 120 anni di vita dell’istituzione, fondata nel 1906.

Cantillo non è soltanto una studiosa. È un simbolo. Un emblema vivente della lenta ma inesorabile trasformazione di un mondo del pensiero a lungo dominato dal maschile, spesso incapace – o non disposto – a riconoscere la ricchezza del contributo femminile. Per secoli, le donne sono state escluse dal grande racconto della filosofia, non perché incapaci di pensare, ma perché sistematicamente silenziate. In un passaggio divenuto celebre, il filosofo Diderot – in pieno Illuminismo – definiva la donna semplicemente come “la femmina dell’uomo”. Una definizione che fotografa perfettamente l’orizzonte entro cui si muoveva l’epoca: la donna non era considerata un soggetto filosofico autonomo, ma una variazione del maschile, una presenza secondaria, se non addirittura un’assenza giustificata.

Eppure, la storia della filosofia femminile – seppur nascosta – esiste. Le donne hanno pensato, scritto, ragionato, spesso nel silenzio domestico, mentre svolgevano altri compiti, mentre cucivano, accudivano, sbucciavano piselli, come provocatoriamente ricorda l’articolo che ha portato alla ribalta Cantillo. Il loro pensiero non è mai mancato. È mancato il riconoscimento.

Già nel mondo antico, Ipazia d’Alessandria – matematica, astronoma, filosofa neoplatonica – incarnava un modello di sapere femminile che faceva paura al potere. La sua morte violenta per mano di una folla cristiana nel 415 d.C. non è soltanto un fatto storico: è un simbolo della rimozione sistematica del pensiero delle donne dalla scena pubblica e filosofica. Eppure, la sua figura continua a risorgere, a interpellarci. Ipazia non è solo la “prima filosofa”, ma una pioniera che ha pagato con la vita la sua autonomia intellettuale.

Nel Novecento, altre figure hanno tentato di spezzare questo silenzio. Simone Weil, ad esempio, è una delle più grandi pensatrici del secolo scorso: una donna radicale, mistica, operaia, filosofa, che ha riflettuto come pochi altri sulla relazione tra giustizia e verità, forza e fragilità, corpo e spirito. In lei la filosofia non è mai disgiunta dall’azione: è fame di assoluto, desiderio di purezza, sguardo impietoso sulla violenza del potere. Weil ci ricorda che pensare significa esporsi, mettersi in gioco, vivere fino in fondo le conseguenze delle proprie idee.

E come dimenticare Hannah Arendt, che con la sua analisi del totalitarismo e del concetto di “banalità del male” ha smascherato la deriva del pensiero che si arrende alla burocrazia, alla rinuncia al giudizio? O ancora, Elisabeth Anscombe, Julia Kristeva, Angela Davis, Judith Butler, Adriana Cavarero: filosofe che hanno saputo interrogare la realtà partendo da prospettive nuove, spostando il centro della riflessione su corpi, relazioni, identità, vulnerabilità.

Queste pensatrici hanno agito spesso in solitudine, ai margini, ma hanno lasciato tracce profondissime. Hanno dimostrato che il pensiero femminile non è “diverso” per natura, ma che ha saputo cogliere angoli ciechi della filosofia dominante, svelare domande che prima non venivano poste. Hanno aperto spazi inediti, attraversando la filosofia con la forza della differenza, senza per questo rinunciare all’universalità della ragione.

In questo scenario, l’ascesa di Clementina Cantillo non è un caso isolato, ma l’esito di un processo culturale in lento movimento. Una tappa significativa di un cammino che parte da lontano. La sua figura si inserisce in questo solco di pensatrici capaci di coniugare rigore e passione, tradizione e innovazione, ragione e ascolto.

Non a caso, la nuova presidente della Società filosofica italiana sottolinea con forza il legame tra pensiero e nonviolenza. “Il pensiero è l’unico antidoto contro la violenza”, afferma. In un tempo in cui la cronaca è attraversata da storie di femminicidio, abusi, diseguaglianze, il pensiero filosofico torna ad avere una valenza salvifica. Non è solo un’attività accademica. È uno strumento di consapevolezza, un esercizio di ascolto, un modo per abitare il mondo con più profondità e rispetto.

La filosofia, ci ricorda Cantillo, è un’educazione alla lentezza, alla precisione, alla coerenza. È una scuola di libertà, perché insegna che nulla è scontato, che ogni certezza va interrogata, che la verità è un processo e non un possesso. È questo che la rende rivoluzionaria. E forse è per questo che le donne – storicamente abituate a dubitare, a mettere in crisi l’ordine costituito – sono particolarmente adatte a questo compito.

Alla fine, il messaggio che Clementina Cantillo ci lascia è tanto semplice quanto potente: “Meglio il cammino del riposo”. Una citazione del filosofo José Ortega y Gasset che sembra racchiudere l’essenza della sua visione. La filosofia è un cammino. Un esercizio di pazienza, di costanza, di ascolto. Non offre risposte facili, ma insegna a porsi le domande giuste. Non promette scorciatoie, ma traccia sentieri.

In un’epoca in cui tutti sembrano voler correre, Clementina Cantillo ci invita a fermarci, a pensare, a camminare con il pensiero. E ci ricorda che anche il più lungo dei viaggi comincia da un atto di coraggio: il coraggio di conoscere. 

Carlo Di Stanislao