Trump e i dazi

di Raffaele Gaggioli

Inconsistente ed erratica. Questi sono i termini più usati dagli analisti per descrivere la politica commerciale iniziata da Trump lo scorso due aprile.  In quel giorno (rinominato “Giorno della Liberazione” da parte del Presidente), la Casa Bianca ha imposto dazi contro la maggior parte della comunità internazionale.

La decisione di Trump colse alla sprovvista molti analisti e Wall Street per molteplici motivi. Per cominciare, questo tipo di tariffe sono state usate solo due volte nel corso della storia degli Stati Uniti (nel 1828 e nel 1930) ed in entrambi i casi la loro applicazione aveva danneggiato gravemente l’economia del Paese.

In secondo luogo, non è chiaro in che modo le tariffe imposte contro la Cina, l’Unione Europea e il resto del mondo sono state calcolate. Il rapporto tra il deficit/plus nella bilancia commerciale di Washington e le nazioni oggetto di questi dazi ed il totale delle importazioni USA è stato infatti usato come percentuale su cui basare le tariffe. Questo calcolo ha portato a risultati quasi incomprensibili, come l’imposizione di dazi del 10% contro le isole antartiche popolate solo da pinguini.

Trump è sembrato poi volersi accanire con particolare enfasi contro la Cina. L’inizio della guerra commerciale di Trump è coinciso con l’imposizione di oltre il 34% di tariffe contro tutte le merci provenienti dalla Cina, innalzando il livello di quelle già esistenti ad oltre il 54%.

Nonostante le rassicurazioni di Trump che l’economia americana sarebbe stata in grado di reggere qualsiasi contromisura adottata dall’Unione Europea, dalla Cina e dalle altre nazioni, alla fine del Liberation Day il Segretario americano del tesoro Scott Bessent minacciò pubblicamente la comunità internazionale di non reagire, sostenendo che in questo modo non avrebbe subito ulteriori danni e che avrebbe potuto negoziare a condizioni più favorevoli.

Le minacce/promesse di Bessent non hanno prodotto i risultati sperati. Alcuni giorni dopo il due aprile, sia Pechino, sia Bruxelles avevano preparato a loro volta dei dazi da imporre contro le merci americane, soprattutto quelle prodotte in Stati repubblicani che avevano votato per il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2024.  Quando Wall Street riaprì dopo il weekend, il 7 aprile, i principali indici azionari statunitensi erano in calo.

Il dow jones (il più noto indice azionario della borsa di New York) era sceso fino a 3,56%, mentre il Nasdaq 100 (indice basato sulla capitalizzazione di mercato delle cento società non finanziarie a più alta capitalizzazione) aveva subito un calo del 3,94%. Entro la fine della giornata, la Federal Reserve aveva iniziato a valutare un intervento diretto per risolvere la situazione.

L’8 aprile Trump ha improvvisamente dichiarato che avrebbe rimandato per novanta giorni l’imposizione dei dazi, in modo da dare il tempo alle varie nazioni di rinegoziare i loro trattati commerciali con gli Stati Uniti. L’unica eccezione è stata la Cina per la quale Trump ha alzato ulteriormente i dazi su tutte le merci cinesi importate fino al 104%.

L’improvviso cambio di passo di Trump ha sorpreso gli analisti solo fino ad un certo punto. Già nel corso di febbraio e marzo, aveva fatto simili mosse contro il Canada e il Messico. In un primo momento li aveva accusati di stare approfittando della generosità americana, poi aveva minacciato di imporre pesanti dazi ed infine aveva concesso loro più tempo per negoziare dei nuovi accordi.

A detta dei suoi sostenitori ed alleati, questa non è altro che una tecnica per ottenere migliori accordi commerciali. La pressione e le minacce non sono altro che incentivi per spingere le altre parti al tavolo ad accettare le condizioni imposte dagli Stati Uniti.

I critici pensano invece che Trump stia manipolando i mercati per accrescere il suo patrimonio e quello dei suoi alleati. In particolare, gli oppositori politici di Trump hanno fatto notare che il Presidente aveva invitato i suoi sostenitori ad acquistare vari titoli, nonostante l’andamento in rosso di Wall Street, poche ore prima di posticipare l’imposizione dei dazi.

Anche i suoi recenti cambi nelle politiche contro la Cina sembrano essere stati influenzati dagli interessi economici dei suoi sostenitori. L’11 aprile, Trump ha infatti annunciato che le tariffe contro la Cina escluderanno gli smartphone, alcuni computer e altri dispositivi come i router. Una mossa che sembra essere stata determinata dalla pressione di Apple e di altre aziende tecnologiche statunitensi, dato che la maggior parte delle loro industrie si trova in Cina.

L’aggressività e l’indecisione dimostrate da Trump a partire dal Liberation Day hanno già gravemente danneggiato l’economia statunitense. La posticipazione delle tariffe ha permesso momentaneamente a Wall Street di recuperare le perdite, ma il 12 aprile la situazione è tornata a peggiorare.

Il dollar index, che misura la forza del dollaro rispetto a un paniere delle principali valute mondiali, ha subito un ulteriore abbassamento. Un dollaro vale attualmente 0,88 euro, il valore più basso dal 2022.  L’indice S&P 500 (indice azionario che monitora le 500 maggiori società statunitensi quotate in borsa) ha registrato inoltre un calo in tutti i settori, specialmente nei comparti energia, telecomunicazioni ed informatica. L’imposizione di dazi da parte della Cina contro merci americane ha diminuito la fiducia dei mercati, soprattutto perché Pechino rimane tuttora il principale partner commerciale di Washington.

L’incertezza causata da Trump è tale che si è registrata un’impennata nella vendita di titoli di stato americani a causa dell’instabilità dei mercati finanziari statunitensi.

Raffaele Gaggioli

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