I mercati finanziari reagiscono in tempo reale a ogni dichiarazione, tweet o sospetto, il potere della parola si è trasformato in una vera e propria leva economica. Non è un mistero che Donald Trump, presidente degli Stati Uniti e abile comunicatore, abbia sempre saputo, e forse sfruttato con maestria, questo meccanismo.
Le sue dichiarazioni, spesso arrivate via X in orari strategici, hanno avuto il potere di far crollare o impennare i mercati globali, muovere capitali da un settore all’altro, influenzare il valore del dollaro, dell’oro e del petrolio. Ma se tutto questo non fosse solo frutto della casualità o della schiettezza di un politico fuori dagli schemi? Se ci trovassimo di fronte a una raffinata macchina speculativa, dove ogni parola è calibrata per ottenere un effetto specifico?
Durante la sua presidenza, e anche oggi al suo secondo mandato Trump ha spesso minacciato dazi — soprattutto nei confronti della Cina — per poi ritrattare, riaprire i negoziati o annunciare “progressi storici” nella trattativa. Ogni annuncio di guerra commerciale ha avuto ripercussioni immediate: le borse crollavano, le materie prime salivano, gli investitori cercavano rifugi sicuri. Poco dopo, bastava una dichiarazione di “progresso nei negoziati” per invertire la tendenza e rilanciare l’ottimismo sui mercati.
È lecito domandarsi: quanto di tutto ciò era realmente legato a strategie politiche o commerciali, e quanto invece rispondeva a logiche di pura speculazione?
La costante attesa di una tregua — che si tratti della guerra commerciale, di tensioni in Medio Oriente o di politiche monetarie ambigue — sembra essere essa stessa uno strumento di controllo. Una pace annunciata ma mai concretizzata genera incertezza, e l’incertezza è la linfa vitale della speculazione. In un sistema dominato da algoritmi, trader ad alta frequenza e grandi fondi speculativi, anche un aggettivo può significare milioni di dollari spostati da un mercato all’altro.
Trump conosce — e ha sempre mostrato di conoscere — il valore reale di una dichiarazione pubblica. In un sistema dove la comunicazione è istantanea e globale, la sua voce aveva più influenza di una decisione della Federal Reserve. Questo non solo perché era presidente, ma perché sapeva quando, come e cosa dire per colpire precisi nervi scoperti del sistema finanziario.
E se tutto ciò fosse una grande rappresentazione? Un gioco tra l’illusione di controllo e la manipolazione dell’informazione, tra politica e finanza, dove le dichiarazioni non sono altro che leve strategiche per spostare capitali a vantaggio di pochi?
In quest’ottica, non si tratterebbe più di semplici gaffe o impulsività. Le dichiarazioni presidenziali, e il loro impatto sui mercati, potrebbero essere interpretate come strumenti di un sistema capitalistico altamente strategico, in cui la parola è la nuova moneta e l’informazione (vera o presunta) è il più potente degli asset. E Trump lo sa bene.