Le parole sono la droga più potente usata dall’umanità.” — Rudyard Kipling

Viviamo in un tempo in cui le parole sembrano valere più dei fatti. La politica, tanto nazionale quanto internazionale, è diventata un esercizio di comunicazione più che di governo. I leader parlano, twittano, promettono. Ma la realtà, quella dura e concreta, resta inchiodata al suo posto. Gaza continua a bruciare, l’Ucraina resta dilaniata da una guerra interminabile, l’industria italiana si sgretola sotto il peso dell’indifferenza e della mancanza di visione.

Il paradosso è che il mondo parla sempre di più, e agisce sempre di meno. Un paradosso pericoloso, perché la storia insegna che dietro le parole non seguite da azioni si nasconde spesso il preludio al disastro.

Salvini: il discorso vuoto in apertura del Congresso della Lega
A confermare questa tendenza è anche l’intervento di Matteo Salvini all’apertura del Congresso della Lega. Un discorso carico di attacchi — contro Elly Schlein, Giuseppe Conte, l’Unione Europea e persino Trump — ma del tutto privo di idee nuove, proposte concrete o visione strategica. Un abbaiare politico che serve solo a coprire l’assenza di un progetto reale per risollevare le sorti di un Paese allo sfascio. Una perfetta sintesi della politica-spettacolo: tanto rumore, zero soluzioni.

Trump rieletto: la retorica della soluzione facile diventa politica estera
Con la rielezione di Donald Trump, la politica americana entra ufficialmente in una nuova fase di incertezza. Le promesse fatte in campagna — come quella di porre fine alla guerra in Ucraina “in 24 ore” — diventano ora posizioni presidenziali. Il suo “piano”, mai dettagliato ma già inquietante, prevede la cessione di territori ucraini alla Russia, come la Crimea e parte del Donbass. Nessun negoziato vero, nessun rispetto per la sovranità. Solo l’illusione di una scorciatoia diplomatica costruita sul sacrificio altrui.

Ora che è tornato alla Casa Bianca, le sue dichiarazioni non sono più sparate da comizio, ma linee guida della superpotenza globale. Il rischio è altissimo: la banalizzazione dei conflitti, la delegittimazione delle alleanze storiche, l’isolazionismo mascherato da patriottismo. Il suo atteggiamento verso la NATO — fatto di minacce di disimpegno e seduzioni verso Putin — alimenta l’instabilità. E mentre Trump gioca alla pace facile, in Ucraina si continua a morire.

Gaza: dichiarazioni in serie, silenzi assordanti
A Gaza, il copione è simile. Si susseguono appelli, risoluzioni, inviti alla moderazione. L’Europa condanna, l’ONU chiede tregue, gli Stati Uniti — anche sotto la nuova amministrazione Trump — parlano di “diritto alla difesa proporzionata”. Ma sul campo la situazione resta tragica. Migliaia di civili uccisi, sfollati, strutture sanitarie distrutte. Le parole si accumulano, ma non fermano le bombe.

La retorica diplomatica è diventata un alibi. Si parla per non dover agire. Si condanna per lavarsi la coscienza, mentre nessuno affronta davvero le radici politiche e storiche del conflitto. Così Gaza resta un simbolo tragico del nostro tempo: un luogo in cui la sofferenza reale viene coperta da un’infinita coltre di dichiarazioni inutili.

Italia: la politica industriale delle conferenze stampa
E l’Italia? Anche qui, le parole non mancano. Giorgetti avverte che i dazi americani — confermati dal nuovo corso trumpiano — potrebbero colpire duro la nostra economia, e chiede flessibilità all’Unione Europea. Meloni promette tutela del Made in Italy, resistenza commerciale, sostegno alle imprese. Ma al di là delle conferenze stampa, poco o nulla si muove.

Non esiste, oggi, una vera strategia industriale italiana. Le imprese chiudono o delocalizzano, i distretti soffrono, l’innovazione arranca. I famosi “piani” si riducono a una somma di incentivi spot, senza visione, senza continuità. Si agisce per tamponare, non per costruire. Anche qui, la retorica è più veloce dei risultati. Ma la realtà economica non aspetta. E ogni giorno perso pesa.

La storia si ripete, e spesso finisce male
Non è la prima volta che l’umanità si rifugia nelle parole per evitare di affrontare i problemi. La storia è piena di precedenti.

Negli anni ’30, mentre il nazismo cresceva, le democrazie europee si limitavano a parlare. A condannare, a negoziare, a rimandare. Nessuno volle vedere dove stava andando la Germania di Hitler. La Società delle Nazioni, antesignana dell’ONU, era piena di buoni propositi e incapace di agire. E il mondo finì in guerra.

Durante la Belle Époque, l’Europa viveva un’illusione di progresso eterno. Le élite parlavano di civiltà, di cultura, di pace. Intanto cresceva l’odio tra le potenze, e bastò un attentato a Sarajevo per far crollare l’intero castello di carte.

Anche la caduta dell’Impero romano d’Occidente fu preceduta da una lunga fase di autoillusione. Gli imperatori parlavano di restaurazione e di unità, mentre i confini cedevano e la società si sfaldava.

Tutte queste epoche hanno un filo rosso comune: l’incapacità di riconoscere la realtà dietro le chiacchiere.

Meno parole, più verità
Oggi, il mondo non è meno fragile. Semplicemente, è più rumoroso. I leader parlano, si moltiplicano i forum, le dichiarazioni, i tweet. Ma la storia non si scrive con le parole. Si scrive con i fatti.

Le chiacchiere di Trump diventato presidente, le promesse di Meloni sull’industria, le condanne europee sulla guerra a Gaza, i discorsi fumo di Salvini: tutto suona vuoto se non è seguito da azioni. E la realtà, prima o poi, presenta il conto.

In un’epoca di grandi cambiamenti — climatici, geopolitici, tecnologici — non possiamo più permetterci di essere spettatori passivi del teatro della retorica. Perché il rischio, oggi come allora, è che mentre parliamo, il mondo crolli sotto i nostri piedi. In silenzio.

 Carlo Di Stanislao

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