Il “Moby Dick” di Melville, al Quirino, nella trasposizione teatrale di Ferro: una riflessione drammatica su volontà e destino
Il senso visivo, tecnico e drammaturgico del Moby Dick, andato in scena al Quirino di Roma, esalta i valori poetici e simbolici del romanzo di Herman Melville. La trasposizione teatrale di Micaela Miano coniuga con efficacia fedeltà tematica e libertà espressiva, mantenendo intatta la forza narrativa e allusiva dell’opera.
La regia di Guglielmo Ferro struttura la messinscena sulla tolda della baleniera Pequod, uno spazio sobrio ma altamente evocativo, che si trasforma in un microcosmo drammatico, scenario della tragedia umana e dell’ossessione che la governa. L’ambientazione marittima, nella sua essenzialità, viene resa attraverso un sapiente gioco di luci e suoni, capaci di restituire il senso di isolamento, la vastità dell’oceano e la minaccia incombente della balena bianca.
Moni Ovadia interpreta un Capitano Achab di straordinaria intensità, e dà corpo con rigore al tema della compulsione autodistruttiva. Il suo giuramento di vendetta contro la balena bianca, momento cruciale alla fine del primo atto, risuona tra furia e fatalismo, come una condanna irrevocabile, che trascina l’equipaggio e il pubblico in un vortice inarrestabile. La celebre frase “Noi uomini siamo fatti per girare e girare” enfatizza il destino ciclico dell’umanità, intrappolata in una ricerca senza fine.
La balena bianca non è solo un nemico, ma un simbolo polisemico: la natura insondabile e indomabile, Dio, il male assoluto o il vuoto dell’esistenza. Achab tenta di piegare l’inconoscibile alla propria volontà, mentre Starbuck, interpretato da Giulio Corso, rappresenta la voce della ragione. Corso, all’inizio, si distingue per cadenze e ritmo che seguono un modello di recitazione naturale. Man mano che la trama si sviluppa, il suo personaggio, progressivamente ingabbiato dalla crescente follia di Achab, si trasforma, assumendo una dimensione sempre più accorata e commovente.
La tragedia del Pequod è segnata dall’eterna tensione tra destino e libertà di scelta. L’equipaggio, interpretato da Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese e Marco Delle Fratte, offre una performance collettiva di grande efficacia, in cui ciascun protagonista è parte di un insieme che incarna un’esistenza eterogenea, trascinata da un fato già scritto. La narrazione teatrale non concede vie di fuga: l’inevitabilità del disastro è il vero motore dell’azione.
L’equipaggio incarna un’umanità eterogenea, trascinata da un destino già scritto (ph U.S.)
Il testo di Melville è anche una riflessione sul sapere e sulla sua insufficienza di fronte all’infinito. La regia riesce a mantenere questa dimensione filosofica senza compromettere il ritmo, grazie a un impianto scenico dinamico e a un uso sapiente delle luci curate da Pietro Sperduti, che evocano il chiaroscuro dell’oceano e dell’animo mortale.
Queequeg, reso con solidità da Pap Yeri Samb, è il testimone silenzioso di una spiritualità altra, alternativa a quella ossessiva di Achab. La sua frase “I posti veri non sono in nessuna carta” è il contrappunto alla cieca determinazione del capitano: esiste un sapere che sfugge alla logica umana. L’equipaggio multietnico del Pequod diventa così un microcosmo, simbolo di una diversità che, pur convivendo, non riesce a salvarsi dalla catastrofe.
Se Achab è la follia che sfida l’ignoto, e Starbuck la voce della ragione che tenta, invano, di arginarla, personaggi come Pip, Tashtego, Flask, Daggoo, Stubb e Fedallah contribuiscono a delineare il mosaico umano della baleniera, con caratterizzazioni ben definite.
Le scene di Fabiana Di Marco e i costumi di Alessandra Benaduce creano un’atmosfera avvolgente e immersiva, in cui i movimenti scenici, curati da Monica Codena e le musiche di Massimiliano Pace, danno vita a un dramma di grande impatto, in cui la tragedia umana si consuma tra le onde dell’ossessione e della fatalità.
L’oceano, che incombe dal grande ledwall sul fondale, rende tangibile la presenza dell’abisso, incarnato da un superlativo Moni Ovadia. Impossibile non percepire l’eco di Nietzsche, che ammonisce “Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”.