di Raffaele Gaggioli

Venerdì ventotto marzo il sudest asiatico ha registrato due scosse di terremoto di magnitudo 7,7 e 6,4. Nonostante il centro sismico si trovasse nella regione birmana di Sagaing, le onde del terremoto si sono sentite fino in Cina al punto che sono stati registrati danni fino a milletrecento chilometri di distanza. Secondo gli esperti, è uno dei terremoti più potenti registrati nella regione negli ultimi venticinque anni.

A causa della censura del regime e dei pessimi rapporti diplomatici della Birmania con il resto del mondo, non è stato ancora possibile appurare il livello di danni e il numero di morti causati dal terremoto. Secondo le testimonianze dei cittadini stranieri presenti nello stato asiatico e le immagini satellitari, buona parte della capitale sarebbe però stata ridotta in macerie. La Giunta militare del Paese asiatico ha reso noto che i morti accertati sono 1.002 e che i feriti sono 2.376, ma si teme che il numero di vittime possa superare le diecimila.

La gravità di quanto successo ha trovato ulteriore conferma quando il primo ministro Min Aung Hlaing ha ammesso che il numero dei morti è destinato a salire e ha chiesto l’aiuto della comunità internazionale. Hlaing è infatti lo stesso generale che nel 2021 rovesciò il governo di Aung San Suu Kyi (prima e ultima leader democraticamente eletta in Birmania sin dal 1948) per riportare al potere le forze armate.

L’ammissione di Hlaing rivela non solo l’incapacità della dittatura birmana di nascondere l’entità dei danni, ma soprattutto le difficoltà che deve ora affrontare a causa del terremoto. Interi palazzi governativi sono andati distrutti, provocando così la morte di molti funzionari ed impiegati necessari per il funzionamento del governo e dell’economia birmana. E’ più che probabile che i danni subiti dalla capitale e la fuga generale di molti abitanti nelle campagne, terrorizzati dall’idea di ulteriori scosse, renderanno il processo di ricostruzione e la ripresa economica ancora più difficili.

La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che la giunta militare non controlla l’intero territorio birmano. Dopo il colpo di stato del 2021, la Birmania è precipitata in una guerra civile tra le forze della giunta, il Governo di Unità nazionale (governo in esilio composto da ministri e alleati di Suu Kyi) e diverse milizie separatiste alleate con quest’ultimo.

Già prima del terremoto, la guerra civile aveva causato la distruzione di oltre cinquantamila edifici civili, rendendo necessario l’invio di aiuti umanitari per oltre diciassette milioni di persone e causando la fuga di oltre quarantamila birmani in Cina, Tailandia e altri Paesi confinanti. Nonostante il sostegno militare della Cina e un massiccio impiego di bombardamenti aerei, nel 2024 la giunta aveva perso il controllo di oltre duecento basi e di cento città. Il governo di Unità Nazionale è particolarmente forte nelle aree periferiche della Birmania, mentre le milizie separatisti controllano oramai le regioni di Rakhine, Karenni e Chinland, quattordici città nello Stato strategico settentrionale di Kachin e alcuni importanti centri di estrazione di terre rare a Chipwi e Pangwa.

Non è chiaro come il terremoto cambierà la situazione del conflitto. Il centro di potere della giunta militare risulta gravemente danneggiato, ma allo stesso tempo i ribelli non hanno né le risorse, né il supporto internazionale necessari per fronteggiare i danni causati dal disastro naturale.

Il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, spera che l’emergenza nazionale porti a qualche tipo di cessate il fuoco, almeno per permettere la distribuzione degli aiuti umanitari in tutte le aree colpite dal sisma. La People’s Defense Force, la milizia che combatte contro la giunta per un ritorno alla democrazia, ha espresso supporto per questa iniziativa e ha proposto un cessate il fuoco di almeno due settimane per consentire il passaggio degli aiuti verso le aree colpite dal terremoto.

Tuttavia, la giunta non sembra avere né la capacità, né il desiderio di valutare i danni o di inviare soccorsi nelle zone colpite dal terremoto controllate dalle forze nemiche. Al contrario, le forze governative hanno ricominciato a bombardare queste regioni neppure ventiquattro ore dopo il terremoto nella speranza di costringere alla resa le forze antigovernative.

Non è neppure chiaro se o come verrà permesso alle organizzazioni internazionali umanitarie di assistere gli abitanti delle regioni attualmente non controllate dalla giunta militare.

Nonostante l’instabilità interna del Myanmar, o forse proprio a causa di essa, molti membri della comunità internazionale hanno risposto alla richiesta di aiuto di Hlaing. L’Unione Europea ha stanziato 2,5 milioni di euro in aiuti di emergenza, la Corea del Sud ha promesso 2 milioni di dollari, mentre la Cina ha inviato una squadra di soccorso medico composta da 37 esperti, equipaggiati con dispositivi di rilevamento di vita e di droni. Nel frattempo, il governo americano e quello indiano hanno promesso di aiutare nella ricostruzione del Paese.

E’ difficile prevedere come questa assistenza internazionale influenzerà l’andamento della guerra civile in corso. Molti governi stranieri potrebbero sfruttare il caos causato dal terremoto per proteggere i loro interessi strategici nella zona. Sin dal 2021 Pechino è la maggiore sostenitrice della dittatura birmana sia a livello economico, sia a livello militare, mentre gli Strati Uniti considerano tuttora la giunta come un governo illegittimo. Il bisogno di ricostruire il Paese dopo il terremoto aumenterebbe inoltre l’influenza economica di diverse capitali stranieri in Birmania.

Raffaele Gaggioli 

shwezigon-pagoda