Figlio di un tintore di tessuti di seta, battezzato con l’acqua della laguna perché sempre fedele alla sua Venezia, pittore dalle pennellate generose e dalle opere di dimensioni grandiose, il Tintoretto riesce con la sua Deposizione a rendere vividamente sensazioni, emozioni e moti del cuore di quel momento così intimo e sacro.
Realizzata per la chiesa di Santa Maria dell’Umiltà alle Zattere a Venezia intorno al 1562, negli anni della sua piena maturità, essa è un compianto sul Cristo morto più che una deposizione, iconograficamente rappresentata in modo molto diverso.
Entrambi i momenti, quello della deposizione e del compianto, però, sono accomunati dal fatto di non essere stati mai raccontati in nessun Vangelo ma risultano avere più un valore pedagogico per l’uomo che li contempla.
Essi, infatti, veicolano un grande messaggio: davanti alla morte e alla sofferenza bisogna fermarsi. Siamo nel momento dopo l’abbraccio di Maria al figlio esanime, dopo quel che noi chiamiamo la pietà.
Gesù è sulle ginocchia della Madre come un bimbo in fasce e, così come la gioia iniziale fu incontenibile, il dolore di quel momento lo è altrettanto e Maria sviene, più morta di un morto, lo sguardo assente, pallida e distante.
Perfetta immagine della lauda Donna de Paradiso, la più famosa di Iacopone da Todi che alla fine recita:
“Che moga figlio e mate “Che muoiano figlio e madre
d’una morte afferrate: in un’unica morte straziati:
trovarse abraccecate che si trovino abbracciati
mate e figlio impiccato” la madre e il figlio appeso alla croce”
Soltanto attraverso il dolore di Maria è infatti possibile provare a comprendere e sentire sulla propria pelle un soffrire tutto umano, contrastante col sacrificio tutto divino di Cristo così misterioso e inarrivabile.
Contrasto evidenziato dalle rette di azione divergenti tra la figura di Madre e Figlio, al centro della quale appare il legno della croce poco distante.
Maria è sorretta amorevolmente da Maria di Cleofa, sopraggiunge con fare dirompentemente attonito Maria Maddalena mentre Gesù è sorretto con forza da Giuseppe d’Arimatea in un turbinio di linee curve che vanno dal braccio destro del Cristo, proseguono lungo le braccia aperte a mò di croce della Maddalena e si chiudono con la mano della Madonna che tocca i piedi del Figlio, accanto alla quale sono posizionati i simboli della passione.
Il viso del Cristo è in ombra ma retro-illuminato dalla luce della resurrezione che già c’è ed è di fondamentale importanza, in modo da definire i lineamenti del Signore della vita.
Le mani di Figlio e Madre sono quasi nella stessa posizione, come ad uno specchio, quasi dello stesso colore ceruleo come a dire che il dolore umano della Madre è stato nobilitato dalla passione del Figlio.
Non si toccano come per affermare il fatto che ora i due mondi sono divisi ma specularmente simili, poiché il divino ha incontrato l’umano e, attraverso la sofferenza, l’umiliazione, l’abbandono e il dolore profondo lo ha nobilitato e consacrato.
Un percorso dell’anima forte che in vista della Quaresima e della Pasqua 2025 vale la pena intraprendere, per chi è a Milano, recandosi al Museo Diocesano Carlo Maria Martini dal 4 marzo al 25 maggio per poter ammirare questa preziosa opera, generalmente conservata nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Percorso arricchito da, quattro artisti contemporanei – Jacopo Benassi, Luca Bertolo, Alberto Gianfreda, Maria Elisabetta Novello – in collaborazione con Casa Testori, che si sono lasciati interrogare dalla grande tela, creando un rapporto personale con il dipinto.