Orge sessuali e scambi di mogli a Capodanno erano tradizioni e riti propiziatori in alcune zone remote del passato.
L’importanza di una festa di Capodanno detta diMilamala fu osservata per primo dall’antropologo Bronislaw Malinowski, il quale aveva piantato le tende al centro di un villaggio delle isole Trobriand per studiare usi e costumi degli abitanti della Nuova Guinea.
Il Milamala era un rito che chiudeva il ciclo produttivo dell’igname di cui i trobriandesi si nutrivano e propiziava il favore del nuovo anno agricolo con riti, canti, distribuzione di cibi, banchetti domestici, e sfrenatezza sessuale.
Per tutta la durata del Milamala il villaggio era trasformato in una grande pubblica mostra di frutti e prodotti con i magazzini di ignami ostentatamente visibili al pubblico e ornati a festa mentre banane, taro, cocco e tutti i prodotti dell’anno erano simbolicamente riuniti sopra piattaforme speciali, disposte cerimonialmente per le vie e gli spazi liberi del villaggio ad allontanare qualsiasi preoccupazione di una futura mancanza di cibo.
Il piacere e la sfrenatezza sessuale erano le sole attività consentite per poter compiacere anche allo spirito dei morti mentre qualsiasi lavoro era sospeso per un pericoloso e temuto tabù.
Secondo gli osservatori, con le danze, il batter di tamburi, l’esposizione di cibi e la loro distribuzione, la vita emotiva degli isolani si accendeva di un desiderio di orgiasmo e licenza sessuale che con un miscuglio di violente emozioni scatenava rapporti amorosi e sessuali, come quello descritto da Malinowsky nel suo libro “La vita Sessuale dei selvaggi“:
Le coppie di giovani stendono una stuoia per terra e si sdraiano uno accanto all’altro, si strofinano a vicenda il naso, le guance e la bocca. Gradualmente le carezze si fanno più appassionate, i due si sfregano la lingua contro quella dell’altro, si succhiano le labbra e le mordono fino a quando sanguinano; si addentano a vicenda le guance, il naso e soprattutto le ciglia. Si graffiano la schiena con le unghie, procurandosi lacerazioni profonde. La donna sta sdraiata sulla schiena, le gambe divaricate e alzate e le ginocchia piegate.
Un altro antropologo, Franz Boas, invece fece conoscere il mondo lontano degli Inuit o Eschimesi, un piccolo gruppo di cacciatori che viveva presso il circolo polare artico e il cui nome significa «esseri umani».
La loro vita si basava su un continuo alternarsi tra l’aggregazione in gruppi e la caccia solitaria, seguendo la selvaggina anche in un clima ostile essendo profondi conoscitori del proprio territorio tanto da avere quaranta modi diversi per definire la neve.
La loro vita negli igloo non era semplice ma consentiva di sopravvivere a zero gradi contro i meno venti, meno trenta gradi dell’esterno.
In queste difficili condizioni se nascevano più femmine ne veniva scelta una a cui insegnare come cacciare, un ruolo ritenuto tipicamente maschile.
Il nome dato ai bambini veniva attribuito non in base al sesso anatomico ma in base al sesso dell’antenato recentemente morto, sperando poi in una reincarnazione nel neonato.
Tra gli Eschimesi, il Capodanno era il momento di allontanare la paura della fame e richiamare i defunti in un ritorno rituale a chi tra i vivi ne aveva preso il nome, poichè come già detto, l’ultimo nato prendeva il nome dell’ultimo morto.
I fuochi erano lasciati ardere giorno e notte per tutta la durata della festa. Agli spiriti venivano offerti cibi, bevande e indumenti: in realtà tali offerte venivano accolte dagli individui che impersonavano gli omonimi defunti.
Aveva luogo quindi una distribuzione di cibi con un pubblico banchetto e una serie di danze. Infine gli spiriti venivano rispediti alla loro dimora, mentre rilevanti manifestazioni d’orgia sessuale con scambio delle mogli accompagnavano questa, nonché altre cerimonie eschimesi, nel non certo originale connubio tra orgia alimentare e orgia sessuale.
Umberto Palazzo
Editorialista de IlCorriereNazionale.net