di Yuleisy Cruz Lezcano 

La redenzione del carnefice, purtroppo, è una questione che solleva interrogativi profondi sul valore e sulle dinamiche della giustizia, e nella letteratura la sua trattazione è spesso ambivalente e complessa. Cosa significa davvero che un carnefice possa essere redento? E quale prezzo deve pagare per la sua redenzione? È possibile che il carnefice non sia mai veramente “redento”, ma resti per sempre definito dal crimine che ha commesso?

L’arte riesce a esaminare la violenza nelle sue molteplici forme: l’abuso emotivo e fisico all’interno delle famiglie, la gelosia, la rivalità e il controllo maschile. Ci può offrire una visione del corpo e della mente delle donne come teatri di lotta, dove il desiderio di indipendenza e realizzazione si scontra con le forze oppressive di una cultura che pretende il loro sacrificio. Dentro tutto questo contesto di abusi, di mentalità che si oppone al cambiamento l’arte pone quesiti. Infatti, una delle domande più difficili e provocatorie sollevate dalla letteratura e dalla psicologia della violenza di genere riguarda la possibilità di recupero e reintegro sociale degli aggressori.

In molte delle opere letterarie e poetiche, la figura dell’aggressore non è mai semplicemente demonizzata, ma viene messa in discussione nel contesto di una cultura che alimenta e giustifica le disuguaglianze di potere tra i sessi. La violenza, infatti, non è solo un atto individuale, ma spesso il prodotto di un sistema che normalizza certi comportamenti e che può produrre vittime anche tra gli stessi carnefici.

Esplorare il concetto di redenzione attraverso il processo di trasformazione psicologica è un’azione rivoluzionaria, ma non può aprirsi a generalizzazioni confondenti ed etichettature pericolose. Durante le presentazioni del mio ultimo libro «Di un’altra voce sarà la paura», pubblicato con Leonida edizioni, lontana da giustificare le azioni violente, mi sono spinta ultimamente verso la comprensione delle cause profonde e delle dinamiche sociali che spingono verso il cambiamento della condotta e della capacità di costruire relazioni sane da parte dei carnefici. Si sono spesso sollevate domande circa la possibilità di perdono da parte delle vittime. Penso che questo sia un altro tema difficile, ma che intendo esplorare ed approfondire. In molte storie, il perdono è un processo complesso e personale, che non dovrebbe implicare una giustificazione dell’atto violento, ma piuttosto una liberazione dalla sofferenza e dalla vendetta.

Nel contesto del femminicidio, il carnefice è spesso rappresentato come una figura che non solo ha compiuto un crimine orribile, ma che porta con sé anche una serie di motivazioni psicologiche, sociali e culturali. Tuttavia, la letteratura ha anche la capacità di riflettere sulla possibilità di redenzione del carnefice, un concetto che spesso implica una punizione, ma anche una possibilità di trasformazione interiore. Per quanto riguarda i soggetti violenti si possono costruire diversi modelli esplicativi dai quali possono emergere devianze sui comportamenti tipici e discussioni sociologiche per l’impossibilità di inquadrare le caratteristiche individuali di questi soggetti. Sebbene ogni caso di violenza sia unico, esistono alcune caratteristiche comuni tra gli autori di violenza sulle donne, che sono state esplorate da teorie psicologiche, sociologiche e antropologiche. Allo stesso tempo, molte supposizioni di senso comune continuano a influenzare la nostra percezione degli aggressori, contribuendo a etichettare erroneamente il fenomeno come un problema esclusivamente “individuale” e legato a malattia mentale o “follia”. In questo contesto, emerge la questione se i soggetti violenti possano essere rieducati e capaci di costruire relazioni sane e rispettose in futuro.

Alcuni psicologi come Robert Hare, psicologo clinico e criminologo, che ha sviluppato uno strumento diagnostico utilizzato per identificare i tratti psicopatici in individui con comportamenti antisociali, hanno descritto alcune caratteristiche del carattere e comportamenti che portano a commettere crimini violenti, come stupri e femminicidi, come l’assenza di empatia, il comportamento impulsivo e la mancanza di rimorso per le proprie azioni. Nel suo libro «Without Conscience: The Disturbing World of the Psychopaths Among Us», Hare esplora come i psicopatici siano spesso in grado di mascherare i loro tratti patologici e manipolare gli altri, e come questa incapacità di empatia li renda particolarmente inclini alla violenza, anche nei casi di stupri e femminicidi.

 Altri studiosi come John Bowlby suggeriscono che nei soggetti violenti, in particolare in quelli che commettono stupri o femminicidi, le esperienze infantili di attaccamento possano influenzare la formazione della personalità e il comportamento, e che il disprezzo per la vita umana, il sadismo e l’assenza di empatia siano caratteristiche ricorrenti nei comportamenti di chi commette crimini estremamente violenti.

In questa ottica, la violenza è vista come una manifestazione di un profondo disadattamento psicologico o di malattie mentali non trattate. Tuttavia, non tutti gli aggressori sono psicologicamente “malati” nel senso clinico del termine, e molti non rientrano in categorie patologiche diagnostiche. L’idea che l’aggressore di violenza di genere sia un “pazzo” o mentalmente disturbato è un altro stereotipo. Sebbene alcuni autori di violenza abbiano effettivamente patologie psichiche, la maggior parte degli uomini violenti non soffre di disturbi mentali clinici. Piuttosto, la violenza è spesso il risultato di fattori culturali, sociali e relazionali.

Le teorie delle devianze, come la teoria dell’etichettamento di Erving Goffman, suggeriscono che alcuni individui diventano violenti come risposta alla marginalizzazione sociale o all’auto-percezione di sé come “fuori norma”. In questo caso, l’etichettamento sociale di un uomo come “aggressivo” o “violento” potrebbe rinforzare il suo comportamento violento. La violenza, quindi, diventa parte di una “identità” deviante che l’individuo adotta nel tentativo di rispondere alle aspettative sociali e culturali. Per quanto riguarda il deviante, non è necessario che questo comportamento esista, ciò che conta è che coloro che reagiscono credano che esista. È dunque la reazione a creare la devianza. Per esempio se un dato soggetto violento che ha comportamenti di sopraffazione all’interno di una relazione di coppia, ascolta più volte le caratteristiche che hanno i soggetti come lui violenti, potrebbe interiorizzare l’etichetta, arrivando ad autodefinirsi deviante, assorbendo l’etichetta come identità reale e comportandosi come la società si aspetta che si comporti un soggetto che compie violenza. A volte però questo non accade e le caratteristiche di un individuo capace di compiere violenza rimangono nascoste o non manifestano e non si incorporano a un processo di stigmatizzazione. Pertanto, definire in modo univoco le caratteristiche di una persona che compie violenza, non ha molto senso. Così come è difficile anticipare che questi soggetti possano essere rieducati, in modo di potere rientrare nella società e costruire relazioni sentimentali equilibrate e sane. L’automatismo nella concessione di fiducia nel cambiamento dopo un periodo di rieducazione, forse non è così scontato. La presunzione di una riabilitazione dopo un processo di educazione è fin troppo ottimista. Il cambiamento richiede un lavoro profondo su sè stessi.

Nel mio ultimo libro «Di un’altra voce sarà la paura» mi sono messa più dalla parte della vittima, offrendo del carnefice solo delle immagini, spesso animalesche, nel momento in cui compiva la violenza. Sicuramente però, non esisterebbe la vittima se non esistesse l’aggressore, il carnefice. Allora bisogna andare oltre i limiti del libro e parlarne, chiedersi se davvero a chi uccide una donna debba essere data la possibilità di fare un percorso rieducativo strutturato all’interno di una struttura carceraria o sia lasciato a sè stesso o semplicemente faccia qualche colloquio istituzionale, senza nessuna struttura rieducativa e senza un percorso orientativo mirato. Ricordo la frase di Vittorino Andreoli espressa in un convegno in cui dice: “il carcere è una costosa inutilità”. Questa affermazione è dovuta al fatto che chi va dentro perché deve rielaborare la colpa, chi è stato carnefice, dentro il carcere può sentirsi in realtà vittima di un sistema e può non essere capace di elaborare veramente la colpa. Bisogna rimuovere nel profondo le cause che portano a commettere un reato. Altrimenti il rischio sarà quello di ricommettere questi atti gravi.

Un esempio letterario che esplora l’idea della pena scontata e del nuovo delitto in un contesto di femminicidio è il romanzo di Albert Camus, «La Peste». Sebbene non tratti specificamente di femminicidio, Camus affronta il concetto di colpa collettiva e individuale in una situazione di crisi. Qui il concetto di “redenzione” non riguarda una figura specifica di carnefice, ma una comunità intera che deve affrontare le proprie colpe, trasformandole attraverso la solidarietà e l’azione condivisa. Questo ci può fare ragionare sul ruolo sociale nel promuovere il carnefice, l’aggressore a compiere un reale percorso di espiazione o di comprensione piena delle sue azioni. Per questo non basterebbe il sistema giudiziario né la pena, né il sentimento di colpa o rimorso, ma è necessaria una trasformazione morale profonda.

La redenzione del carnefice nella letteratura, così come nella vita, è una questione complessa e ambigua, soprattutto quando si tratta di crimini devastanti come il femminicidio. La letteratura spesso riflette la difficoltà di concepire una vera e propria redenzione per chi ha compiuto atti di violenza, specialmente in un contesto di disuguaglianza di genere e di potere. Forse questo è dovuto alla mancanza del ruolo educativo delle prigioni?

Attualmente, la pena scontata dal carnefice, spesso, non è sufficiente a restituire giustizia alla vittima, e la redenzione sembra lontana, o talvolta impossibile. In molti casi, il carnefice è destinato a restare intrappolato nel proprio rimorso o nella propria violenza, incapace di trasformarsi veramente.

Conclusioni

La violenza di genere è un fenomeno che può essere spiegato da molteplici teorie e fattori, ma non esiste una singola causa che possa spiegare completamente i comportamenti violenti. Sebbene alcuni soggetti violenti possano essere rieducati e cambiare il loro comportamento, il problema della violenza di genere è profondamente legato a strutture culturali, sociali e storiche che vanno affrontate in modo globale. Solo attraverso un impegno condiviso – che comprenda l’educazione, la riforma delle leggi e il supporto alle vittime, ma anche la prevenzione in età precoce – sarà possibile ridurre la violenza e promuovere relazioni più sane e rispettose tra i sessi.

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