Quando ci piomba addosso un qualche cosa di male, la prima cosa che vien da pensare è perché proprio a me. Quasi che il dolore, così come il bene, vada meritato, e se non è meritato, diventa ingiusto: era meglio che piombava addosso a qualcun altro; a un altro, che lo meritava di più.

Del resto, è tendenza tipica del nostro secolo, infiocchettare la vita come un pacco regalo. ‘La vita è bella’, da Benigni in poi, è diventato uno slogan, quasi avessimo rimosso la trama del film, dove la vita è dichiarata ‘bella’ in una inscindibile dimensione di dolore; quasi faccia troppo spavento ammettere può essere ferro e può essere piuma, la vita, e che se si nega una parte di lei, smette di esistere anche l’altra.

Stabilito questo, il romanzo d’esordio di Roberta Recchia, Tutta la vita che resta, edito da Rizzoli nel 2024, non è un libro per tutti. Il nucleo è costituito da una famiglia, i cui componenti appaiono come ramificazioni di un fiume che solo alla fine tornano a fluire nello stesso centro. Un lutto costeggia ogni sequenza della narrazione: trattiene, stringe e prosciuga le interiorità di chi ne è coinvolto. Tutti, ne sono coinvolti. Ma se Betta Ansaldo, dopo aver subito violenza, muore, sua cugina Miriam, dopo aver subito la stessa violenza, sopravvive, decidendo di soffocare nel grembo vergogna e verità.

Recchia, con una lente d’ingrandimento, ispeziona il dolore di chi di resta, di chi non ha più voglia di dire niente, che non c’è più niente da dire. La ricerca di autodistruzione di Miriam, alla conclusione del romanzo, porterà però ogni componente di quel fiume a risvegliare nuove risorse interiori, a respirare avidamente dopo un periodo di apnea. Ciascuno, di colpo, comprende che c’è ancora spazio, per la vita, e che buio e luce sono due parti della stessa unità.

È per questo che lancio al lettore una provocazione. Chi è disposto a buttarsi a capofitto in una storia di dolore se, di fronte al dolore, voltiamo tutti la testa? Chi ha il coraggio di ammettere che non è negando l’esistenza della sofferenza che la gioia diventa a portata di mano?

Tocca azzardare una risposta: non tutti. Forse per questo il romanzo d’esordio di Roberta Recchia, Tutta la vita che resta, non è un libro per tutti. Però, è un libro per molti; anzi, per moltissimi. In Italia, è diventato un caso editoriale, vendendo un numero significativo di copie e raccogliendo consensi positivi; all’estero, riscuote sempre più interesse e popolarità. Sarebbe allora il caso di domandarsi a cosa sia dovuto, tutto ciò.

Con ogni probabilità, che lo si neghi o meno, in un periodo storico costellato di apparenze artefatte e vite taroccate, abbiamo una vorace fame di verità. È nella dimensione della sofferenza, che torniamo ad essere autentici, rinunciamo a quella maschera di personaggio ideale che abbiamo adibito a versione – presunta – migliore, riscoprendoci abitatori di un’anima che, alle volte, reclama solo un po’ di silenzio. Roberta Recchia, allora, lasciando parlare la sua storia e rinunciando a qualsiasi virtuosismo, con stile limpido e svelto rende impossibile prendersi una pausa dalla sua storia, universale e senza tempo. Se questo si verifica, se l’ingordigia prevale sulla misura, è perché c’è ancora bisogno di parlare di dolore.

Giulia Tardio