Sanità e beni relazionali: ognuno di noi ha un bisogno profondo di relazionarsi positivamente con gli altri, in medicina assume un significato maggiore, imprescindibile, ai fini della prevenzione e per lenire esperienze di malattia e di dolore, di disagio psico-fisico.
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Caratterizzati da non divisibilità, co-produzione, non rivalità e inesauribilità, i beni relazionali che consistono solo in relazioni sociali, intangibili, sono fondamentali per il benessere emotivo e psicologico dell’individuo e contribuiscono alla costruzione di una società coesa, armoniosa che garantisce una migliore qualità della vita individuale e di comunità.
Il concetto è stato introdotto nel dibattito teorico nella metà degli anni 80 dal filosofo e sociologo Pierpaolo Donati e dalla filosofa Martha Nussbaum, con riferimento non solo al mondo del non profit (volontariato, gruppi di auto-mutuo aiuto) ma anche per le imprese economiche pubbliche o private.
Pensiamo infatti a quanto le buone relazioni, non quelle “posizionali” per intenderci, migliorino la produttività nei contesti lavorativi, comportando soddisfazione e fidelizzazione dei dipendenti, rilevanti quanto quelle dei clienti. Tuttavia per avere tale valenza non gli si deve assegnare un prezzo, le relazioni devono mantenere il principio della gratuità.
Poniamo un consulente, un venditore che provi a creare un clima familiare con il cliente perché sa che questo rende più probabile, più agevole, la conclusione del contratto, con condizioni più favorevoli, ma tutto ciò sia palese anche per il cliente. In tal caso quel dialogo non genera alcun bene relazionale, è più probabile che generi un “male relazionale”, indisponendo il cliente per l’invadenza che ritiene di non voler subire.
I beni relazionali condizionano e orientano le nostre scelte, si è portati a “consumarne” in grande quantità. Quanti ritornano a fare colazione in un bar perché insieme al caffè si “nutrono” di incontri, conversazioni, scambi di informazioni.
Questo bisogno di nutrimento caratterizza ad esempio l’anziano che spesso vive da solo e esce da casa più volte durante la giornata per la spesa: prima nel panificio, poi dal fruttivendolo, quindi la macelleria, in banca e così via, per acquistare beni e servizi ma soprattutto per nutrirsi di relazioni, parole, sorrisi e contatti umani.
La personalità di ognuno di noi è il prodotto delle relazioni con gli altri, dagli altri perviene in gran parte l’immagine del proprio sé, in base a come è valorizzata o depersonalizzata può essere rispettivamente migliorata o peggiorata. I legami sociali forniscono supporto, senso di appartenenza e occasioni di crescita personale, arricchendo la qualità della vita e rendendola più amabile e sana.
La frase “Mens sana in corpore sano” sottolinea l’importanza del legame tra benessere mentale e fisico. Tuttavia, il benessere personale va oltre l’attività fisica e una sana alimentazione: include anche la dimensione sociale. Le relazioni positive e significative con gli altri sono essenziali per un salutare equilibrio emotivo e psicologico, per il benessere psico-fisico.
La dottoressa Flavia Caretta, inoltre, riporta l’affermazione che “se la biologia molecolare è stata adottata quale paradigma della medicina del XX secolo, il paradigma medico per il XXI secolo dovrebbe essere centrato sulla relazione”.
Afferma che ogni richiesta di cure include anche un bisogno di relazione, si sta sempre più palesando la necessità, l’esigenza di compensare il predominio tecnologico e informatico, nella diagnostica e nelle terapie, con la cura che coinvolge tutti i cinque sensi del curante, consentendo “il passaggio dalla inumanità della tecnica alla tecnica dell’umanità”.
Gli studi recenti infatti confermano i vantaggi in termini di risultati terapeutici, quando l’assistenza è caratterizzata dalla qualità della comunicazione, dalla empatica e non fredda condivisione del piano di gestione della malattia, in quanto tutto ciò può influire sulla salute del paziente “in termini di stato emozionale, aderenza alla terapia, risoluzione dei sintomi, funzionalità, controllo del dolore, misure fisiologiche come pressione arteriosa e glicemia”.
Per comunicare sono necessarie relazioni e parole andando oltre il semplice udire. Oltre il livello fisiologico della funzione uditiva è importante percepire anche i pensieri, lo stato d’animo, il significato personale e più nascosto del messaggio che ci viene trasmesso.
È stato affermato che, rispetto alla maggior parte dei farmaci, le abilità nella comunicazione hanno indubbiamente un effetto palliativo in quanto spesso riducono significativamente i sintomi delle malattie, hanno inoltre un buon indice terapeutico ed il sovradosaggio è raro, pertanto il problema più comune nella pratica è un dosaggio basso, sub-ottimale.
Lo psicologo statunitense Albert Mehrabian ha evidenziato l’esistenza di tre componenti alla base di un atto comunicativo: il linguaggio del corpo, la voce, le parole.
Secondo il suo studio, del 1967, l’impatto della comunicazione è per il 55% dovuto al linguaggio del corpo (gesti, postura, mimica facciale), per il 38% agli aspetti paraverbali (tono, timbro della voce, pause, ecc.) e solamente per il 7% alle parole e al contenuto verbale. Mehrabian aveva analizzato le comunicazioni emozionali.
Il processo di assistenza e cura dei pazienti consiste in un protocollo da scomporre in procedure diagnostiche e terapeutiche e vi è sempre implicata una dimensione umana emozionale, imprevedibile, non standardizzabile. Secondo da dott.ssa Caretta occorre “giocarla” all’interno di una relazione curante-assistito, reciprocamente. Questa “È la nuova sfida rivolta alle università, impegnate a formare nuovi professionisti delle scienze biomediche”.
Riportiamo anche una frase del dottor Mario Tiengo, tra i fondatori della terapia del dolore, che, parlando della relazione curante-paziente, riteneva che «entri a buon diritto, e con le carte in regola di “presidio scientifico”, nella terapia del dolore».