Siamo entusiasti della nostra rubrica, “Versi e Racconti della Settimana“, dedicata a celebrare i talenti letterari emergenti. In collaborazione con l’Associazione Nazionale Italiana nel Mondo, offriamo uno spazio unico per chi ama scrivere e desidera condividere la propria voce.

Ogni venerdì, presentiamo nuove poesie,  racconti e estratti che ispirano e fanno riflettere. Che tu sia uno studente, un insegnante, un autore emergente o semplicemente un appassionato di parole, ti invitiamo a partecipare! Invia i tuoi testi a redazione@corrierepl. it e potresti essere uno dei protagonisti della nostra rubrica.

Non perdere l’opportunità di far sentire la tua voce! Ogni settimana selezioneremo i contributi più originali e interessanti per metterli in evidenza nella nostra sezione “Arte, Cultura & Società”.

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L’obiettivo? Promuovere la scrittura e dare spazio a nuovi talenti, sia a livello nazionale che internazionale.

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Invia i tuoi testi a redazione@corrierepl.it entro il mercoledì di ogni settimana! Insieme, con le nostre parole, possiamo fare la differenza. #ScriviConNoi #FaiLaDifferenza

Nel numero di questa settimana, abbiamo il piacere di presentare i contributi giunti in redazione:

Poesia:

Prigioni

Mentre sto rinchiusa tra le mura di questa stanza,

china su una tastiera, accecata dalla luce del neon,

i miei pensieri vanno oltre…

oltre ogni barriera fisica,

che mi tiene prigioniera in questo luogo asettico.

la vita e’ un soffio,

un sospiro carico di emozioni.

la vita e’ energia,

e’ il sole che riscalda,

e’ il vento che ci arruffa i capelli..

mi chiedo …

che ci sto a fare in questa stanza

che sento come una prigione?

Antonietta Caracciolo

 

Metamorfosi

 Nella notte pesta

a parlar di sortilegio

probabile oscuramento

di luce riflessa

smarriti nel cielo gli sguardi

intenti a presumere congetture

illustri personaggi

non avevano rivolto lo sguardo

verso il fondo del pozzo

dove in silenzio

senza far rumore

era finita.

Solo un rospo se n’era accorto

fra la melma un lampo improvviso

sulle asperità del muro

aveva rischiarato il passo

all’insperata libertà.

Tratta dalla mia silloge “Attraverso la finestra la luna

Antonella Polenta

  

A voi, uomini

A voi, uomini, parlo,
a voi che tenete il mondo tra le mani.
La forza non è dominio,
non è il passo che schiaccia,
non è il grido che impone silenzio.

La forza è un abbraccio,
è il rispetto che cresce,
è la luce che guida
senza mai oscurare.

Guardate la donna,
non come possesso,
ma come compagna di strada,
come fonte di vita e riflesso di voi stessi.

Lei non è ombra dietro al vostro cammino,
ma la luce che illumina il vostro destino.
Non è inferiorità né silenzio,
è voce, è scelta, è fierezza.

Onoratela,
non per timore,
ma perché da lei nasce il mondo.
La sua forza è invisibile,
è quella che cura, che crea, che resiste.

Ricordate:
ogni volta che la ferite,
ferite il futuro,
ferite voi stessi.
Ogni volta che la rispettate,
rendete più grande il vostro cuore.

Non c’è forza più grande
di un uomo che comprende,
che protegge senza possedere,
che ama senza paura.

A voi, uomini, parlo:
fate della donna non un trofeo,
ma una compagna libera.
Solo allora, nel suo rispetto,
scoprirete la vostra vera grandezza.

Lucia Santucci

 

I nostri ragazzi

Gioventù

Sole che sorge

Respiro dell’alba

Fuoco che arde

Squarciato il silenzio

Da grida di gioia

Brivido di una mano che sfiora

Equilibrio sul filo di un rasoio.

Giovane

Carezzi l’audacia che ti consuma dentro

Sogni come foglie al vento

In un mare di bugie

La Verità ricerchi

Con mani che bruciano di speranza.

Tra luci ed ombre

Segreti sussurrati nelle notti stellate

Ogni  abbraccio ha il profumo dell’Infinito

Giovani

Verità che brilla

Universo che esplode

Cacciatori di sogni

Tra echi di risate

Vite al limite talvolta

Come senza un domani.

Celano i sorrisi

La paura di non esser abbastanza

Occhi di incanto e promesse

Calma e tempesta

Cuori in fiamme

Mondo ai piedi.

Roberto Pignataro

 

 

Racconti:

Erano trenta, o forse sessanta, i lettini che appaiono nelle immagini dei miei ricordi, disposti sui due lati spogli, lunghi, del dormitorio dal soffitto alto, come quelli che si vedevano un tempo. Le due file correvano perfettamente parallele, con i piedi maniacalmente allineati agli angoli dei mattoni in graniglia, di un predominante color sabbia, spezzato da piccole scaglie bianche che creavano un leggerissimo contrasto, sufficiente a rendere più luminoso il grande spazio.

Nella grande stanza si percepiva l’odore distante della candeggina, e la vista si apriva sui lettini, ordinati, tutti identici, coperti da un copriletto bianco con rilievi geometrici a piccoli quadrati, che rendevano la copertura ruvida al tatto. Da alcuni di essi, quelli degli ultimi arrivati dai visi ancora smarriti e che ancora non avevano imparato a rifare bene il letto, affioravano i lembi delle coperte di lana color miele.

Lo smarrimento nei visi sarebbe scomparso in breve tempo, poiché la sopravvivenza ai ritmi e agli impegni quotidiani lo esigeva. La monotonia permeava i miei gesti ripetuti, e sotto l’apparente compostezza si nascondeva una noia profonda, che si allontanava solo nei momenti ricreativi, quando, io poco più di un bambino, mi sentivo finalmente libero di esprimermi.

Alla testa del mio letto c’era un comodino chiaro, con gli angoli un po’ rovinati, e dietro di esso un armadietto dove riponevo i pochi vestiti. Per essere facilmente riconosciuti tra quelli di molti altri ragazzi, nelle ceste della biancheria appena lavata e poi sistemata sui ripiani degli scaffali della lavanderia, erano contrassegnati da una piccola etichetta di stoffa bianca con il numero 26, se ricordo bene, di colore rosso, cucita all’interno. Quella biancheria non aveva alcun odore, e questa assenza mi riportava al ricordo del profumo della biancheria lavata a casa da mia madre.

Nell’armadietto conservavo i miei effetti personali e i prodotti per l’igiene: un porta sapone rettangolare di plastica celeste con la corolla di un girasole stampata sul coperchio, che conteneva un sapone dall’odore di casa mia, un pettine e uno spazzolino. Quest’ultimo mi sembrava, ogni volta che lo utilizzavo, meno prezioso di quelli degli altri ragazzi che, in ordine casuale, si avvicendavano ai lavandini affianco al mio. Accanto ai piedi del letto c’era una sedia, sulla quale potevo sedermi ma non lasciare mai nulla sopra

Sul fondo di uno dei lati corti della grande stanza era posizionato un letto, sul quale il fratello religioso si fermava per qualche momento di pausa dall’andirivieni tra le due file di lettini, controllando che tutti fossero al loro posto e attendendo che ci addormentassimo. Attendeva che il silenzio fosse rotto solo dal lieve cigolio della rete di qualche lettino, dove qualcuno, sotto le coperte, cercava la posizione più comoda, e dai respiri regolari dei ragazzi. Sopra il letto, un grande crocifisso di legno scuro dominava l’ambiente, ricordandoci, con la sua austerità, l’importanza del rispetto delle regole terrene e celesti.

I due lati lunghi e desolati dello stanzone erano caratterizzati, da un lato, da una sequenza infinita di finestre di legno bianco, altissime, con i vetri che vibravano durante le notti di temporali; dall’altro, da due porte d’accesso che comunicavano con un ampio spazio adibito a sala giochi, dove si trovavano un paio di biliardini, un tavolo da ping pong, qualche tavolo e un pianoforte nero che conferiva un tono severo all’ambiente. Tuttavia, tutto ciò non bastava a dare un senso di pienezza a quel grande spazio bianco dal soffitto alto. Con le spalle alle porte, a sinistra, su uno dei lati corti, c’era una porta a vetrata ad arco con i suoi ampi rettangoli in vetro opaco lattiginoso, incorniciati da legno scuro, che conduceva all’androne delle mille scale e al vano d’accesso alla stanza del superiore. Sul lato opposto, c’era l’altra porta a vetrata che permetteva l’accesso al lavatoio e, ancora più indietro, ai bagni, sempre puliti e caratterizzati da un forte e pungente odore di disinfettante. Si andava a dormire presto, dopo una cena semplice a base di minestra e qualche momento trascorso tra il tavolo da ping pong e i biliardini. La mattina, la sveglia suonava all’alba, seguita dalle attività quotidiane, già programmate e sempre uguali, distribuite in spazi così vasti che, attraversando i lunghi e alti corridoi per raggiungerli, si aveva il tempo di recitare tutte le poste del rosario del mistero del giorno. Il silenzio religioso era interrotto solo dalle preghiere sussurrate, dai nostri passi mentre ci spostavamo ordinati in fila per due, e dal suono della porta che il compagno addetto chiudeva e apriva nel passaggio tra un corridoio e l’altro.

Ogni sera, un forte senso di disagio mi stringeva forte, facendomi sentire carcerato, ma cercavo di negarlo a me stesso. Sapevo che anche in quella occasione mia madre e i miei cari non ci sarebbero stati, e sarei andato a dormire ancora una volta da solo.

Nel lettino mi avvolgevo nelle coperte fino a coprirmi la testa, cercando di isolarmi da tutto, immergendomi nel mio interno per ritrovare i miei sentimenti. La nostalgia, sempre presente, mi assaliva con maggiore intensità, provocandomi una malinconia che travolgeva ogni parte del mio corpo. In quei momenti pensavo a mia madre, a mia sorella e a mio fratello, chiedendomi cosa stessero facendo, di cosa stessero parlando, come avessero trascorso la giornata e cosa avessero mangiato seduti alla stessa tavola. Immaginavo le loro risate, evocando nella mia mente scene di una vita familiare che mi mancava profondamente.

Non capivo il motivo della mia condizione e mi davo una risposta che, sebbene non fosse vera, mi confortava almeno un po’. Mi ripetevo, e questo è successo fino a quando la mia consapevolezza di adulto non l’ha rifiutata, che quella scelta fosse stata mia. Questo pensiero mi accompagnava nei momenti di maggiore difficoltà, offrendomi una parvenza di controllo su una situazione che mi sembrava insostenibile. Riuscivo a trovare un certo sollievo nella convinzione che, in fondo, fossi io a decidere il mio destino, anche se in realtà mi sentivo intrappolato in una realtà che non avevo scelto.

Mi sentivo solo e ripensavo alle ore che mi separavano dal ritorno a casa, dove sarei rimasto per pochi giorni, prima di dover tornare a quella mia “non normalità”. I miei occhi si bagnavano e facevo di tutto per soffocare i singhiozzi, ma alla fine le lacrime rigavano il mio viso. Stanco dell’angoscia che mi stringeva la pancia, mi addormentavo.

Spesso, il pianto soffocato di qualche compagno mi svegliava, e capivo che anche lui piangeva per le mie stesse ragioni. In silenzio, attendevamo che tutti si addormentassero, per poi risvegliarci il mattino seguente, affrontando un nuovo giorno di quella vita. La mattina, appena sveglio, in uno stato d’animo surreale, mi dirigevo verso il lavatoio, un ambiente freddo con i muri coperti da piccole mattonelle rettangolari, dove mi lavavo accuratamente il viso e i denti, proprio come mia madre mi aveva raccomandato, con addosso ancora il ricordo delle emozioni della sera precedente. Poi, seduto sulla sedia accanto al mio letto, che mi trasmetteva il freddo alle cosce nude, con movimenti lenti, gli stessi che ripetevo ogni mattina, mi vestivo e ordinavo accuratamente il mio letto, pronto per iniziare la nuova giornata, con la speranza che portasse pace dentro di me.

E così, ora dopo ora, tra scuola, attività ricreative, qualche esercizio al pianoforte malvolentieri eseguito, momenti di studio e preghiera, giungeva inesorabilmente un’altra sera.

E tutto si ripeteva, come il giorno precedente, in una sequenza che sembrava non voler finire, una consuetudine che ha segnato la mia infanzia e la mia adolescenza, accompagnandomi nella crescita e nel divenire la persona che sono oggi.

Joseph Zurlo

 

Estratti

Capitolo 1… Prologo

 

Sono passati quindici anni da quando ho vissuto la mia avventura nel 1944 […] Grazie a lei ho cambiato radicalmente la mia vita […] Come Lisa mi sono laureata in medicina, prendendo poi la specializzazione in neurochirurgia e ho trovato subito lavoro al New York Hospital. Ho dovuto fare un po’ di gavetta […] ma ora eseguo almeno un paio di operazioni al giorno.

 

Mi sono sposata con Daniel, sì proprio lui… la copia del mio bisnonno. Ci siamo messi insieme alle superiori e da quel momento in poi non ci siamo più lasciati. […] Anche nella sua famiglia ci sono alcuni parenti che hanno delle facoltà particolari, nello specifico sua sorella, che vede gli spiriti dei morti, mentre la madre riesce anche a comunicare con loro […] Oltre ad Alice, Daniel è l’unico che lo sa.

 

Anche il mondo è cambiato parecchio rispetto al 2020 […] Ora molti lavori vengono svolti dalle macchine. […] Le auto non vanno più per strada su quattro ruote, bensì levitano a mezz’aria grazie a dei propulsori magnetici […] Anche Times Square è cambiata completamente, ora al posto dei cari e vecchi schermi del 2020 ci sono delle proiezioni olografiche […] sembra di avere gli occhialini per vedere i film in 3D, quelli che si usavano parecchi anni fa all’interno dei cinema.

 

[…] Se a causa di un incidente perdi un braccio o una gamba, oppure un organo viene danneggiato in modo irreparabile, le persone vanno alla Tec Enterprise […] per sostituire arti umani con protesi robotiche. Per quanto riguarda il settore militare si è sviluppata la War Industries, […] che più che ad aerei assomigliano a delle navicelle spaziali.

 

Spesso ripenso a Lisa e alla Bologna del 1944 […]Per fortuna ho Daniel e Alice, che mi sostengono e mi stanno sempre vicino quando ho questi momenti di sconforto.

 

Titolo: 2030 Apocalypse war

 Autrice: Elisa Delpari

 Casa editrice: Albatros

 

Tutte le opere citate e gli estratti presenti in questo articolo sono stati forniti direttamente dagli autori, che hanno autorizzato personalmente la loro pubblicazione.

 

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