Pensate cioe’ che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima”

Di Lana Lia

San Giuseppe Moscati fu un medico santo, grande amico del Beato Bartolo Longo, del quale fu il medico personale. Moscati fu un santo che si occupava degli ammalati, trasmettendo il suo modo di vivere il Vangelo nel mondo universitario, oltre a  metterlo in pratica coi suoi pazienti. infatti, pochi mesi prima di morire, il 16 luglio 1926, disse ai suoi studenti: ”Abbiate, nella missione assegnatavi dalla Provvidenza, vivissimo il senso del dovere; pensate cioè che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima, a cui dovete sapervi avvicinare e che dovete avvicinare a Dio; pensate che vi incombe l’obbligo di porre amore allo studio, perché solo così potrete adempiere il grande mandato di soccorrere gli infelici”.

Giuseppe Moscati nacque a Benevento il 25 luglio del 1880, ma lavorò come medico  sempre a Napoli. Il 16 novembre 1930, i suoi resti furono traslati dal Cimitero di Poggioreale alla Chiesa del Gesù Nuovo, racchiusi in un’urna bronzea, per opera dello scultore Amedeo Garufi. Questo divenne  il giorno sua memoria liturgica. Il pontefice Paolo VI lo proclamò beato il 16 novembre 1975. Il 16 novembre 1977,  i suoi resti vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione canonica.
Ancora oggi riceve visite da persone di ogni parte del mondo, non solo per le infermità fisiche, ma anche per i mali che colpiscono l’animo degli uomini del nostro tempo.

La sua vita.
Fu il settimo figlio di da Francesco Moscati e Rosa de Luca,
si trasferì a Napoli  a quattro anni, dopo una breve permanenza ad Ancona.
L’8 dicembre 1888, ricevette la Prima Comunione da monsignor Enrico Marano nella chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, fondate da santa Caterina Volpicelli. Il 2 marzo 1898, fu cresimato da monsignor Pasquale de Siena, vescovo ausiliare del cardinal Sanfelice, arcivescovo di Napoli.
Da adolescente, fu liceale  presso l’istituto  Vittorio Emanuele. Dopo il diploma di maturità classica, nel 1897, iniziò gli studi universitari presso la facoltà di Medicina, incurante della tradizione familiare seguita dal padre,dal  nonno paterno e   due dei sei fratelli di studiare Giurisprudenza. Si  diceva che prese questa decisione perché dalla finestra della nuova abitazione poteva osservare l’Ospedale degli Incurabili. Suo padre  gli suggeriva di avere pietà per i pazienti ricoverati.
Il primo ammalato con cui ebbe a che fare suo fratello Alberto, il quale, caduto da cavallo, subì un trauma cranico che gli orari voci una forma di epilessia. Questo fece capire al giovane che la  vita umana era  breve in terra e che doveva dedicaresi  alla professione medica.
All’epoca, le facoltà di Medicina e di Filosofia erano quelle più influenzate dalle dottrine del materialismo, ma il giovsne Giuseppe se ne tenne lontano, concentrandosi sullo studio. Si laureò il 4 agosto 1903 con una tesi sull’urogenesi epatica, raggiungendol il massimo dei voti.

Dopo aver assistito alle prime fasi dell’eruzione del Vesuvio, dell’8 aprile 1906, si precipitò a Torre del Greco, dove gli Ospedali Riuniti di Napoli avevano una sede distaccata, per  dare  l’ordine di sgombero. Caricò personalmente i pazienti, molti dei quali paralitici, sugli automezzi che li avrebbero portati in salvo. Appena l’ultimo paziente fu in salvo, il tetto dell’ospedale crollò.  Egli dimostro di essere molto tempestivo sin da quel momento. Il  giovane medico non volle encomi per se, bensì  ringraziò il resto del personale che, a suo  dire, era più meritevole. Durante l’epidemia di colera del 1911, fu  incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia e, i suoi consigli su come contenerla, contribuirono a limitarne i danni. Oltre agli elogi  ricevette la  notizia di aver vinto un concorso che gli permise di lavorare all’ospedale che vedeva dalla finestra della casa sua. Da lì si occupò dell’esercizio della professione medica,  della libera docenza universitaria e di numerose  pubblicazioni su riviste di settore. Partecipò anche a  congressi medici internazionali.

Imparo tanto dalle autopsie, nelle quali era tanto abile e,nel 1925, accettò di dirigere l’Istituto di anatomia patologica. Un giorno convocò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro la vittoria della vita sulla morte.
«Ero mors tua, o mors», diceva un cartello sovrastato da un crocifisso, fatto sistemare da lui su una delle pareti della stanza. Altre volte, mentre esaminava i cadaveri, affermava che la morte avesse qualcosa d’istruttivo. Egli possedeva un fascino  distinto ed era  una persona di buona compagnia, molto attento alla natura, all’arte e alla storia antica.  Non si concedeva altri svaghi:  non andava  a teatro o al cinema e non aveva un’automobile sua.
Si spostava  a piedi o coi mezzi pubblici, anche su lunga distanza, per  conservarsi sobrio e povero, come gli ammalati che prediligeva visitare. I poveri, per lui, erano «le figure di Gesù Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi».

Anche per questo, molti  pazienti, seppur lontani, si vedevano restituire i soldi con cui lo avevano pagato.   Moscati insegnava agli allievi a  trattare questa manifestazione «non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».
Secondo lui, la carità era la vera forza capace di cambiare il mondo, infatti, nel 1922 scrisse  al dottor Antonio Guerricchio: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene». Moscati conosceva la scienza, ma possedeva una acuta capacità diagnostica.  Ai suoi tempi, erano  noti i raggi X, la TAC e tecnologia simile no. I sintomi che i colleghi  riconducevano ad alcune  malattie, per lui non lo erano e  disponeva terapie spesso  benefiche. Il tenore Enrico Caruso, il quale lo consulto tardivamente, scopri dal dittore  la vera natura del male che lo condusse alla morte. Moscati ebbe come aziende anche il fondatore del santuario della Madonna del Rosario di Pompei, il Beato Bartolo Longo. Moscati era devoto e, prima di “toccare un paziente”, doveva ricevere l’Eucaristia.  Si comunicava quotidianamente, in particolare nella chiesa del Gesù Nuovo che  non molto distante dalla sua abitazione, sita in via Cisterna dell’Olio 10. Lì  viveva con la sorella Anna detta Nina. Grande era anche la sua devozione alla Vergine Maria, sul cui esempio decise di rimanere celibe, ma senza farsi religioso. Non si riteneva incline al matrimonio, ma esortava i suoi giovani allievi ad  abbracciarlo. Diceva che se avesse preso moglie non sarebbe più stato libero di visitare i suoi poveri.

Sali al cielo dopo un  infarto verso le 15,00 del 12 aprile 1927. La poltrona dove si sedette, poco dopo aver compreso cosa stava per succedere, è conservata ancora, con tanti altri suoi oggetti, nella chiesa del Gesù Nuovo. Questo fu possibile  grazie alla sorella Nina.

I padri Gesuiti del  Gesù Nuovo si fecero custodi del suo ricordo e seguirono l’aumento della sua fama di santità.  Fu  canonizzato da san Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, durante la VII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi su «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II».Quella fu l’occasione perfetta per indicarlo ai fedeli come esempio.

Fonti:
Emilia Flochini, Santi e beati.it  e Facebook.