Il corpo nell’anima. Henri Bergson e la filosofia della mente di Alfonso Lanzieri / Marco Ivaldo (Prefazione)/ Riccardo Manzotti (Postfazione)
di Camilla G. Iannacci
IL TEMPO IMMAGINARIO: L’ATEMPORALITÀ
La “corrispondenza di amorosi sensi” tra Filosofia, Letteratura, Arte e Fisica, è presente da “Alla ricerca del tempo perduto di Proust” a l’”Ulisse” di Joyce, alla Fisica: nel primo caso la durée e la memoria dominano le pagine mentre il flusso di coscienza dell’irlandese travolge il lettore, nel caso della fisica il tempo terrestre, nel buco nero, si annulla: assume uno status del tutto differente dalla temporalità che sperimentiamo nella nostra vita tanto da poter parlare di una dimensione “altra” ove non vige il presente, il passato ed il futuro e il tempo diventa “immaginario”.
COSCIENZA E MEMORIA
Le “immagini” di Bergson sono le cose di cui parla Proust: invisibili muri mutano posto in relatività alla forma della stanza immaginata – intorno alle tenebre – e – prima che il pensiero riconosca l’abitazione – si ha il ricordo di ogni ambiente, il letto, le porte, l’esposizione delle finestre che si ritrovano al risveglio: la memoria, nel dormiveglia, come un chiasma.
IL TEMPO PRUSTIANO OVVERO DELLA MEMORIA E DELLE IMMAGINI
«Il fatto che lo scampanellio c’era sempre e che così, tra di esso e l’istante presente, c’era tutto questo passato trascorso in modo indefinito, che io non sapevo di portare con me. Quando c’era stato lo scampanellio io esistevo già e, in seguito, perché io lo udissi ancora, era necessario che non ci fosse stata discontinuità, che neanche per un istante io prendessi riposo, io cessassi di esistere, di pensare, di avere coscienza di me».
«Mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me.
Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso.
Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?
Bevo un secondo sorso, in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo che mi dà un po’ meno del secondo. È tempo che mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire.
È chiaro, la verità che cerco non è in essa, ma in me. Il tè l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con sempre minor forza, quella stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno potergli chiedere di nuovo e ritrovare intatta, a mia disposizione, fra poco, per una spiegazione decisiva.
Depongo la tazza e mi rivolgo al mio spirito. È compito suo trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese oscuro dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla.
Cercare? non soltanto: creare. È di fronte a qualcosa che non esiste ancora e che solo lui può rendere reale, e poi far entrare nel raggio della sua luce».
CONCLUSIONE
Siamo cose e memoria: Bergson e Proust ritrovati per trovare sé stessi.