È difficile ignorare le voci, sussurrate tra i tifosi, di un possibile esonero di Moreno Longo. Voci che, sebbene ancora senza conferme, alimentano un clima di tensione che si estende in tutta la piazza biancorossa. La tifoseria si ritrova a cavalcare l’onda di queste dicerie, che, lungi dall’offrire supporto alla squadra, sembrano invece destabilizzare ulteriormente un equilibrio già fragile. Come un castello di carte, la credibilità del progetto è pronta a crollare sotto il peso di speranze disattese e di illusioni fomentate da una proprietà che sembra vivere a distanza, lasciando Bari e i suoi tifosi in balia delle onde, senza una bussola, senza un’ancora di salvezza.

E in tutto questo, è assordante il silenzio della società, di Aurelio De Laurentiis, un presidente abituato a parole taglienti, velenose, mai spese con affetto e vicinanza per la sua creatura calcistica. Parole che mancano di quella passione genuina, che il tifoso barese vorrebbe sentir risuonare nel cuore della società. E che dire del figlio Luigi, inesorabilmente costretto a un silenzio obbligato? Un silenzio che risuona persino più forte di qualsiasi dichiarazione: il suo mutismo è più eloquente di una conferenza stampa. Dalla famiglia De Laurentiis ci si sarebbe aspettati un altro tipo di dedizione, un attaccamento a quella maglia che, per i tifosi, vale come una seconda pelle.

Bari è una piazza che, nei suoi 116 anni di storia, avrebbe meritato ben altro. Eppure, è una storia che sembra eternamente incompiuta. Una storia costellata di promesse non mantenute, investimenti mancati e timori più forti dell’ambizione. Tra le righe di questo racconto sportivo aleggia una maledizione quasi letteraria, un eterno ritorno che fa pensare a “L’Urlo e il Furore” di William Faulkner, dove la ripetizione di scelte e situazioni crea un senso di immobilismo senza soluzione. Come il personaggio di Quentin, anche i tifosi baresi si ritrovano costretti a rivivere ciclicamente gli stessi timori e le stesse illusioni.

Di tanto in tanto, la squadra riesce a scoprire talenti, a costruire un progetto, a intravedere una speranza, ma il copione è sempre lo stesso: il talento viene venduto, il progetto rinnegato, e il sogno si dissolve per tornare in fondo al cassetto. Forse, come suggeriva Borges, il destino del Bari è quello di una “storia infinita”, di una corsa che non avrà mai fine, di un’opera incompleta, in cui ogni stagione si aggiunge come un capitolo già scritto, quasi con la consapevolezza che l’epilogo sia sempre lo stesso.

La stessa proprietà dei De Laurentiis, all’inizio, era sembrata una boccata d’aria fresca, un’occasione per ridare stabilità e dignità alla squadra. Ma la questione della multiproprietà ha rivelato una realtà ancora più amara: il Bari resta il “secondo” progetto, prigioniero di vincoli che tarpano le ali e frenano le ambizioni. È un vincolo che non fa altro che perpetuare la maledizione di una squadra destinata a oscillare tra sogni di gloria e abissi di delusione.

Ma forse c’è qualcosa di più profondo, una maledizione invisibile che, come una nube oscura, aleggia su questa squadra e su questa città. Un destino avverso che nega la possibilità di costruire una grandezza duratura. Cosa potrebbe essere? Forse un fluido maligno, uno “spettro” come quello descritto da Shakespeare, che aleggia sulle mura del San Nicola e scaccia chiunque osi sognare troppo in grande. O forse, si tratta di un San Nicola che, invece di proteggere i baresi, si è votato ai forestieri, rendendo difficile qualsiasi progetto di stabilità e di gloria duratura.

Eppure, anche in questo scenario di delusioni cicliche, il tifoso non può smettere di sognare. E così, come un Sisifo moderno, si prepara ancora una volta a spingere il masso in salita, sperando che, questa volta, non torni a rotolare a valle.

Nella storia recente del Bari, sembra di trovarsi di fronte a una maledizione che va ben oltre il semplice campo di gioco. Troppo spesso, infatti, la squadra pugliese si ritrova ad essere il trampolino di rilancio per squadre avversarie in crisi, risollevando carriere di attaccanti a secco di gol da mesi e interrompendo serie negative di cui altri club faticavano a liberarsi. È un copione che sembra scritto su misura: se qualcosa può andare storto, con il Bari probabilmente lo farà.

Episodi sfavorevoli, errori arbitrali, infortuni nei momenti peggiori — tutto sembra accanirsi in una sequenza che sfiora il paradossale. Certo, ogni squadra affronta avversità, ma per il Bari queste difficoltà sembrano moltiplicarsi, come se la famosa Legge di Murphy trovasse nella squadra biancorossa la sua incarnazione calcistica.

Forse non esiste altra squadra al mondo tanto incline a vedersi ribaltare contro la fortuna, a incrociare ripetutamente quel destino beffardo che alimenta le illusioni per poi infrangerle, quasi a voler ricordare che ogni sogno di gloria, per il Bari, debba essere una battaglia continua contro una sorte che si ostina a negare.

Per arricchire questo quadro poco edificante con le parole di Franco Battiato, possiamo aggiungere una sua frase emblematica, che sembra perfettamente rispecchiare la situazione di speranze e delusioni infinite:
“E ti vengo a cercare, anche solo per vederti o parlare, perché ho bisogno della tua presenza per capire meglio la mia essenza.”
Come il tifoso barese, che nonostante tutto si aggrappa a quella presenza, a quell’identità, nel tentativo di trovare un senso in una storia fatta di cicli ripetitivi e di sogni mai realizzati. Anche quando tutto sembra perduto, la passione resta viva, per “capire meglio la propria essenza” come parte di una comunità che non può fare a meno di sognare.

Massimo Longo