Marco, anni quarantasette. Operaio da vent’anni in una ditta di trasporti, lascia tutto per aprire una caffetteria a conduzione familiare. Elisabetta, anni trentacinque. Caporedattrice di un magazine di architettura, dedica un anno sabbatico a girare l’America del Sud in bicicletta. Ora vive in Cile e ha un figlio. Gaetano, anni ventotto. Vince il concorso notarile dopo un decennio di studi, ma non è sereno. Dice addio a una promettente carriera da notaio per aprire un negozio di fiori.

Negli ultimi anni, la mole di notizie attorno al tema “mollo tutto e cambio vita” pare essersi moltiplicata: un’analisi condotta da Hays Italia e Serenis sostiene che quasi un italiano su dieci è pronto a lasciare il lavoro entro un anno per inseguire la felicità.

Il potere di queste storie è che sembrano destare una vocina interiore dormiente, la quale, tra il sonno e la veglia, domanda: ma se invece di Marco, Elisabetta o Gaetano, fossi proprio tu? La vita di ogni giorno ti appaga o sei finito in gabbia? Se nessuno ti giudicasse e avessi la possibilità di immaginare la quotidianità dei tuoi sogni, dove ti troveresti in questo momento?

Se le generazioni passate non avrebbero compreso fino in fondo la portata di questi dubbi, la società attuale pare esserne invasa. Ogni cosa è messa in discussione, niente sembra più certo, tutto cambia velocemente. In questa crisi generale di punti fermi, a guidare l’azione di noi mortali alle prese col mondo è una sola consapevolezza: che la vita è una e procede nella direzione che le diamo. Per fortuna, da un lato. Ma quando qualcosa dentro di noi inavvertitamente prende a cambiare, essere gli artefici del proprio destino diventa quasi disorientante.

E si torna così alle vicende di Marco, Elisabetta e Gaetano. Che funzione hanno per noi storie di questo tipo? Come mai negli ultimi tempi si ha tanto il bisogno di essere informati sulle vicissitudini di chi ha già compiuto il salto nel vuoto? Sapere che qualcun altro ce l’ha fatta, ci rende forse più sicuri. Sicuri che è nella norma, che non siamo i soli, che non dovremmo poi sentirci in colpa all’idea di mettere in atto un cambiamento.

Rinunciare alla sicurezza costruita coscienziosamente negli anni equivale «sia per la psiche profonda sia per chi ci sta intorno» – cito un articolo di Riza – «a una sorta di tradimento: si tradiscono il passato, le aspettative e l’identità che abbiamo proposto fino a qui». È per questo che andiamo alla ricerca di giustificazioni: sentire che è la cosa giusta per noi, non basta. Non basta agli occhi del mondo esterno, meno che mai agli occhi del nostro critico interiore.

Le storie degli altri servono a darci coraggio, in qualche caso una spinta. Tengono compagnia di fronte al peso delle aspettative, in attesa di convincerci che il cambiamento fa parte della natura, di certo non è una colpa. La vera colpa – se proprio vogliamo trovarne una – è semmai «fingere di essere quel che non si è più». Su questo, senza dubbio, abbiamo una responsabilità.

Giulia Tardio