Suscita grande tristezza che in un Paese con tanti stipendi sotto la soglia deglla dignità, si spendano centinaia di migliaie di euro per comprare informazioni ottenute illegalmente

La maiuscola, le minuscole, caratteri speciali come se piovesse (che poi vatteli a ricordare), qualche cifra che non sia quella dell’anniversario o del compleanno. Che cosa non si fa per proteggere i propri accessi al mondo digitale, che un tempo era detto virtuale e ora è tutt’uno con quello reale. Ma è roba da ridere – meglio, da piangere – a quanto pare. Di molto reale, pure troppo, c’è invece la facilità con la quale questi accessi, e i dati che dovrebbero proteggere, possono essere violati, diffusi, comprati, venduti, utilizzati per fini di cui è davvero arduo immaginare la liceità.

Con tanti saluti alla riservatezza e alla sicurezza delle comunicazioni, delle transazioni economiche, dei bilanci aziendali e perfino delle relazioni amorose. Ma, in primis, con la manomissione degli equilibri della democrazia. In pochi mesi abbiamo avuto in Italia lo scandalo degli accessi seriali non autorizzati alla Direzione nazionale antimafia, il caso del bancario pugliese che spiava i conti di vip e conoscenti, il giovanissimo hacker siciliano che è riuscito a entrare nel data-base del ministero della Giustizia e ha messo le mani sulle password di 46 procuratori e sostituti procuratori. E l’inchiesta di Milano, che sta esplodendo in queste ore. È l’ennesima dimostrazione di quanto siano a rischio le banche dati alle quali ormai affidiamo le nostre esistenze. E di quanto potere abbiano coloro che sono in grado di ottenere quei dati, o perché sono funzionari infedeli (di una banca, dello Stato, talvolta “ex” con zero scrupoli e tanti zeri sul conto corrente) o perché sono autentici pirati dei mari telematici.

Del resto, il mercato delle informazioni riservate «è gigantesco», come ha ricordato ieri il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Una fiera dei dossier, con clienti sempre pronti a sganciare somme cospicue per procurarsi ciò che può favorirli nell’aggiudicazione di appalti, rovinare un concorrente fastidioso, ricattare, condizionare nomine. È il mercato nero contro le vere regole del mercato, che infatti spesso restano, purtroppo, lettera morta. Una tentazione enorme per chi ha l’occasione o le capacità di impossessarsi dei lingotti digitali di questa immensa miniera d’oro. Giustissimo e sempre più necessario, ovviamente, investire di più in cybersicurezza, come intende fare il governo. Ma se chi vuole aprire la cassaforte ha già in tasca la combinazione, l’impressione è che ci sarà comunque poco da fare. Ovvero, ci sarebbe tanto da fare, ma in termini di etica pubblica, di coscienza civile e di onestà, che è personale proprio come la responsabilità penale. Forse, tuttavia, prima bisognerebbe recuperare la capacità, individuale e collettiva, di indignarsi.

In attesa di sapere quanto e come c’entri la politica, il mondo dell’economia e della finanza è investito in pieno dal ciclone. Sulla fondatezza delle accuse rivolte ai numerosi indagati, ovviamente, si esprimerà la magistratura. Però suscita davvero tristezza pensare che in un Paese dove tanti stipendi sono sotto la soglia di dignità, dove la precarietà del lavoro e la sua insicurezza sono autentiche piaghe sociali, dove si chiudono fabbriche alla velocità di un clic, dove si delocalizza e si cedono rami d’azienda mandando a casa migliaia di lavoratori, manager e imprenditori avrebbero speso «centinaia di migliaia di euro» – parole del procuratore di Milano Marcello Viola – per comprare informazioni ottenute illegalmente.

Uno dei procacciatori e venditori di tali informazioni, intercettato dagli inquirenti, avrebbe detto che l’intento era quello di «fregare tutta l’Italia» e di «tenere in mano il Paese». Speriamo che il Paese riesca a divincolarsi.
Marcario Giacomo

Editorialista de Il Corriere Nazionale

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