Charles Dickens, scrive questo quarto romanzo nel 1840, fu accolto con il favore del pubblico che non è mai cessato.

Non amare Dickens significa non amare leggere i romanzi. Quando si entra nel racconto di questo autore è come entrare aprendo proprio la porta.

Come nel caso della voce narrante che conduce un’adolescente, trovata per strada dal suo nonno antiquario e antiquato egli stesso.

Entriamo in quella casa e si cena, e si entra nel misterioso mondo di Nel e di suo nonno.
Poi compare l’antagonista, un nano usuraio, che mette in disgrazia nonno e nipote costretti a fuggire.

E poi il fratello di Nel – è il nome della fanciulla – che vive lontano e vuol tornare alla loro ricerca – lui pensa di avere chissà quale eredità -. E poi entrano in scena burattinai, un bravo e dolce Maestro, l’ambiziosa proprietaria di un museo di cere, un ammaestratore di cani e un operaio che parla col fuoco della sua fucina…

Fuga da una parte e ricerca avventurosa dall’altra.

La prosa scorre come un talismano di cultura, alla portata oramai di chiunque. Fatevi coinvolgere dal testo:

“………Una sera avevo gironzolato per la città e camminavo lentamente secondo il solito, meditando su molte cose, quando fui arrestato da una domanda, che non compresi ma che pareva rivolta a me ed era pronunciata da una tenera e dolce voce che mi sono piacevolmente all’orecchio.

Mi voltai in fretta, e mi trovai al fianco una oziosa fanciulla, la quale mi pregò di dirle per dove s’andava in una certa via a una notevole distanza, e in una contrada della città assolutamente lontana.

— Bambina mia, è lontanissimo da qui — dissi. — Lo so signore — ella mi rispose timidamente; — purtroppo è molto lontano. Son venuta di là, stasera. — Sola? — dissi, con qualche sorpresa. — Ah, sì, che importa! Ma io ho un po’ paura ora, perchè mi sono smarrita. — E che cosa ti fa rivolgere a me? E se io ti dessi una direzione falsa? — Son certa che non lo farete — disse la piccina — siete tanto vecchio, e camminate così piano.

Non so descrivere l’impressione prodottami da queste parole, e l’energia con cui furono dette, che fece spuntare una lagrima nel limpido occhio della fanciulla, e tremare l’esile personcina, mentr’ella mi guardava in riso. — Vieni — dissi — ti condurrò io.

Ella mise la mano nella mia, con la stessa fiducia che se m’avesse conosciuto dalla culla, e ci mettemmo a trotterellare insieme, la piccina accordando il suo passo col mio, e piuttosto con l’aria di condur lei me e di vegliar su di me, che io di stare a protegger lei”.

Ecco giunti alla casa della fanciulla e viene un signore

” ……..Si trattava d’un vecchietto con la lunga chioma grigia, del quale potei chiaramente vedere il viso e tutto il corpo, mentr’egli, venendo innanzi, teneva levata sul capo una candela e moveva cauto il passo.

Nelle sue forme magre e sparute, immaginai di poter riconoscere, benché assai alterata dall’età, la stessa impronta delicata che avevo osservato nella fanciulla. Gli occhi azzurri del vecchietto e quelli della fanciulla si rassomigliavano molto, ma la faccia di lui era così profondamente solcata di rughe e così grave di pensieri, che ogni rassomiglianza si fermava lì.

Il luogo a traverso il quale egli procedeva pian piano, era uno di quei ricettacoli di vecchi oggetti curiosi che sembrano si annidino nei vecchi angoli di questa città, nascondendo agli occhi del pubblico con gelosia e diffidenza i loro tesori.

Vi erano, ritte, qua e là, armature di ferro che parevan quasi spettri corazzati; intagli fantastici, tolti da monasteri, armi rugginose di varie specie, figure contorte di porcellana, di legno, di ferro, di avorio; tappeti, arazzi e strani arredi che potevano essere stati disegnati in sogno.

Il viso dalle orbite cave del vecchietto era in sorprendente accordo col luogo: egli poteva essere andato vagando a tentoni fra le chiese, le tombe e nelle case abbandonate per raccoglier con le sue stesse mani tutte quelle spoglie.

Non v’era in quella collezione nulla che non fosse in armonia con lui; nulla che sembrasse più vecchio e logoro di lui”

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