Non so se sia vera la storia dei sette pupazzi di neve tirati su dal grande Santo d’Assisi, oppure se il biografo Tommaso da Celano vi abbia messo del suo. Ma la storiella può essere presa ugualmente com’esempio. Tommaso racconta che il diavolo mandò a Francesco una “violentissima tentazione di lussuria”. Il Santo prese a percuotersi con un pezzo di corda, dicendo: «Frate asino, così ti conviene restare, così prenderti le battiture. Perché la tonaca serve alla religione e porta in sé il sigillo della santità: non è lecito, ad un libidinoso, rubarla. Se vuoi andare in qualche posto, va’ pure, cammina!». Niente da fare: la tentazione era incontenibile! Allora per domarla Francesco uscì nudo nel cortile, e s’immerse nella neve abbondante. Niente ancora! Allora il frate pensò di distrarre la mente e di fiaccare le membra, sino a che lo stimolo della carne non si fosse assopito. Cominciò a fare pupazzi di neve uno dietro l’altro. Ben sette ne tirò su. Finita l’opera, prese a parlare al fantoccio che rappresentava se stesso: «Questo più grande è tua moglie, questi due le figlie, e quest’altri due i figli; e c’è anche la domestica e il servo. Moriranno di freddo se non li vestirai in fretta tutti quanti; ma se queste incombenze ti pesano troppo, adoperati per servire unicamente il Signore». A queste parole il diavolo, confuso, si allontanò. Questo a un dipresso il racconto del biografo. E queste per Francesco le conseguenze della castità:  per non cadere in un peccato inconsistente, quella notte sacrificò le ore che avrebbe potuto dedicare al giusto riposo e alle preghiere. Sicuramente vere sono le storie di altri santi.

Santa Caterina da Siena, come san Francesco, delle sue “violentissime tentazioni di lussuria”, per non sentirsi troppo in colpa accusava il povero diavolo. Racconta il Beato Raimondo da Capua che i diavoli presentavano alla santa scene di donne e uomini che si accoppiavano in modo osceno, mentre facevano giungere alle sue orecchie le parole più sconce, e con urli e strepiti la sollecitavano a compiere atti sconci. La vergine, alle volte, per non cedere alla tentazione carnale, abbandonava la sua cameretta e si rifugiava in chiesa, ma i molestatori infernali la seguivano anche lì, e le fervide preghiere si mischiavano ai lascivi pensieri.

E che dire delle “orribili tentazioni” (così le definiva) di santa Gemma Galgani? Il peccato che maggiormente la tormentava, era quello contro la “santa purità”. Andava a dormire e il demonio le si mostrava «in maniera assai sudicia» (Diario, 24 luglio 1900). «Non ne potevo proprio più», scrisse Gemma stessa, in una lettera indirizzata al confessore, monsignor Giovanni Volpi. La notte del 10 ottobre del 1899, per chetare i sensi che non la lasciavano dormire, Gemma prese la fune che di norma portava sulla pelle sino a mezzogiorno, la riempì di chiodi, e se la strinse con forza in vita. Le punte le entrarono nella carne, e il dolore acuto le fece perdere conoscenza. Per fortuna la soccorse Gesù. Una volta “per liberarsi di una fiera tentazione impura, si gettò in una vasca di acqua freddissima” (Eufemia Giannini, Processo apostolico di Gaeta (1922).

Tutto tempo ed energie sottratti alle “cose del Signore”. Il Catechismo della Chiesa cattolica, richiamandosi a San Paolo, riguardo al celibato dei preti, recita al paragrafo 1579: «Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle sue cose, essi si donano interamente a Dio e agli uomini». Ma quante persone religiose che abbracciano la castità, anziché pensare soltanto alle cose del Signore, sono spesso costrette a pensare a cose assai meno spirituali? Altro che cuore indiviso!

Renato Pierri

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