L’ultima prova lirica di Guglielmo Aprile, Quando gli alberi erano miei fratelli (Tabula Fati Edizioni, 2024), è opera che certamente spicca nel panorama delle scritture poetiche contemporanee, perché tenta di fondare una metafisica naturale, a partire dall’assunto che ogni parvenza del cosmo percepibile attraverso i sensi palpiti di vita e sia pervasa di anima: una scommessa generosa, in parte anche rischiosa, per la sua deliberata presa di distanze dalle vie più battute della odierna produzione in versi, e soprattutto per l’ambizione di affidare alla poesia il compito di ricordare a un tempo come il nostro, scettico e ormai incapace di entusiasmi e abbandoni, che l’unica possibilità di salvezza dal nichilismo è nel recupero di un sentimento di comunione (o, per attenerci al titolo della silloge, di “fratellanza”) con tutti gli esseri su cui l’uomo ha imposto la sua pretesa di dominio e sfruttamento, in nome di una presunta egemonia sopra ogni altra forma della creazione.
La raccolta allude di continuo al ricordo di una anteriorità ancestrale, identificabile con una fase storica remota ma non nettamente definita, risalente forse al paganesimo o addirittura al Neolitico, in cui l’uomo era ancora capace di stabilire una relazione simbiotica con le piante e gli animali, con il fuoco e la pioggia: una mitica armonia edenica, che il progresso avrebbe spazzato via, ma che l’incantesimo del linguaggio vorrebbe restaurare. Una poesia colta, che occhieggia alla vichiana fascinazione delle “favole antiche”, attraverso le frequenti citazioni di storie ovidiane di metamorfosi, e che attinge alla moderna riflessione dell’antropologia e della storia delle religioni intorno al tema dell’albero cosmico, archetipo ricorrente in svariati sistemi cosmogonici e connotato di densi substrati simbolici in mote culture primitive.
L’ispirazione dell’autore non teme di misurarsi con questioni di vasta portata, a cui l’introspettivo vagabondaggio lirico nelle tante tonalità di verde del paesaggio implicitamente rimanda: la desacralizzazione della natura, la deriva materialistica della civiltà, la perdita di contatto con il divino e l’utopia che l’afflato religioso, oggi eclissato dal dominio della tecnica, possa resuscitare nelle forme inusitate della venerazione per gli elementi originari, e nel culto di quelle linfe vitali che rinverdendo i rami ogni anno testimoniano la ciclicità del divenire universale e del suo perpetuo rigenerarsi. Una profonda analogia assimila lo scorrere degli umori nei meati dei tronchi a quello del sangue nelle nostre vene; pini e olivi provano anch’essi affetti e moti dell’animo, che la chiaroveggenza di una parola poetica anelante a penetrare il velo della materia ha il dono di interpretare e di rendere comunicabili; e il costante rispecchiamento tra il sentire umano e quello arboreo rievoca il nucleo sapienziale dei popoli scomparsi nell’infanzia della storia umana, non contaminati dall’illusione antropocentrica (illusione ben meno innocente di quella coltivata dal poeta, che negli alberi riconosce presenze viventi), quando gli antenati leggevano in ogni frammento del cosmo il filo di una rete di corrispondenze, che si richiamano fra loro come le cime dei rami di uno stesso tronco.
Anche la tessitura linguistica preziosa, talvolta ricercata e compiaciuta dell’impiego di stilemi aulici, contribuisce a collocare questa scrittura su un piano di aristocratica raffinatezza. L’impressione che fin dalle prime pagine si ricava è che le urgenze in cui l’attualità si dibatte appaiano distanti, sfumate rispetto a una prospettiva fuori dal tempo, come accade al frastuono del traffico cittadino smorzato dal silenzio che si respira all’interno di un bosco. I testi formano una architettura coerente, omogena sul piano tematico e su quello formale, componendo un moderno poema sacro; nei suoi momenti più alti, lo sguardo del poeta travalica l’osservazione dei rappresentanti delle varie specie vegetali, per abbracciare anche le nuvole e i fiumi, le montagne e le costellazioni, contemplando con incantato stupore le geometrie siderali quanto il disegno di una conchiglia, l’intima struttura di un minerale come la disposizione dei petali sulla corolla di un fiore, rinvenendo in tutte le cose tracce di un ordine perduto, barlumi irraggiati dallo splendore di una fiamma trascendente, eco di una musica che percorre le volte celesti e i sentieri del vento nelle valli; e, in definitiva, va in cerca dei simboli di quella bellezza, pitagoricamente concepita, che concede le proprie epifanie su tutti i piani della scala dell’esistente.