Come ti chiami? Quanti anni hai? Che lavoro fai? Bastano tre semplici domande a definire chi siamo e dare l’impressione a chi ci ascolta di saperne abbastanza di noi. Nome, età, lavoro: l’identikit è bello che pronto. Ma se il nome e gli anni ce li portiamo dietro da un po’, lo stesso non si può dire del lavoro, che è il frutto di una scelta, di un percorso di vita. Parla, in qualche modo, di noi, ma non parla per noi. Che sia un sogno nel cassetto o un mezzo per arrivare a fine mese, una certezza rimane ben salda: noi non siamo il nostro lavoro. Ma perché, allora, è così difficile crederlo?
Uno degli handicap della nostra epoca ha a che fare precisamente con questo: il lavoro è diventato cruciale per definire chi siamo e permetterci di sentirci all’altezza degli standard (a prova di alieno) imposti dalla società. Il nostro valore di esseri umani si misura sulla capacità di spingerci al di là del limite senza colare a picco, diventando, agli occhi degli altri, supereroi da imitare. Siamo abilissimi a sintonizzarci sulla modalità del fare, al punto che abbiamo dimenticato come switchare a quella dell’essere.
Ma se la nostra identità è definita dal modo in cui lavoriamo, cosa succede, allora, se un bel giorno ci svegliamo e decidiamo che il nostro mestiere non ci soddisfa più? O se il datore di lavoro (facciamo le corna) ci licenzia? Chi siamo, in altre parole, senza il nostro lavoro? Se infatti il meccanismo interno che ci tiene in piedi ruota attorno a quest’ultimo, è chiaro che tolto quello anche tutto il sistema, di colpo, crolla. E ci si fa un bel po’ male, quando crolla.
Per riscoprire il nostro benessere interiore non è solo sufficiente comprendere ma vale la pena interiorizzare che il lavoro in nessun modo definisce la nostra essenza. Siamo costantemente sottoposti al cambiamento, e le motivazioni che ci spingono verso un determinato lavoro sono immerse anche loro, in questo cambiamento. L’unico centro gravitazionale attorno a cui far ruotare tutto rimaniamo noi stessi.
Bisogna che ci assicuriamo, per concludere, di essere sempre in linea con i nostri valori più profondi e lasciarci guidare da essi nelle decisioni che prendiamo: sono quelle, a conti fatti, che determinano il nostro destino. E ciò anche a costo di scontentare qualcuno o di scoprire lati di noi che non conoscevamo (e che forse avremmo preferito non conoscere). Tanto, cambiamento o no, di una cosa possiamo dirci certi: rimaniamo comunque ciò che siamo – dei magnifici esseri umani che hanno diritto alla felicità.
di Giulia Tardio