di Michele Trabucco

Recentemente i partiti politici hanno ripreso a discute della proposta di una ulteriore modalità per ottenere la cittadinanza italiana: tramite il percorso del cosiddetto diritto di Ius Scholae, cioè la possibilità per chi compie l’intero e completo ciclo di studi obbligatori della scuola italiana di chiedere la cittadinanza.

Ho provato a fare un sondaggio tra i miei alunni della scuola secondaria di secondo grado, di un istituto professionale del Veneto, di una zona altamente industrializzata, con un alto tasso di occupazione e una presenza di circa il 20% di alunni ‘stranieri’.

Innanzitutto, devo prima spiegare loro cosa significa ottenere la cittadinanza di uno Stato e quali diritti e doveri comporta. Non è così scontato. Poi chiedo quali sono i fattori che formano l’identità culturale di una persona, visto che non basta la nascita fisica per avere un’identità psicologica e tantomeno culturale. Inoltre, per semplificare la complessa questione identitaria, faccio una domanda, volutamente provocatoria: di fronte ad una partita di calcio o pallavolo o tennis o altro sport tra due rappresentanti di Stati diversi, quello italiano e quello del Paese di provenienza di sé o dei propri genitori, a chi viene dato il sostegno? Quale Stato si desidera con un discreto coinvolgimento emotivo possa alzare il trofeo della vittoria? La risposta non è così scontata. Per rendere la questione ancora più drammatica chiedo: se scoppiasse la guerra, te la sentiresti di combattere per l’Italia? Di dare la vita per questo Paese? O lo faresti per quello di ‘provenienza familiare’?

Le risposte sono varie. Non è così ovvio che gli adolescenti nati, cresciuti e scolarizzati in Italia si sentano ‘automaticamente’ italiani. Entrano in giochi diversi fattori. In primis l’ambiente familiare. Se in casa si parla sempre e solo la lingua di provenienza dei genitori, si seguono sempre e solo le feste, le tradizioni e le usanze ‘straniere’, certamente i figli anche adolescenti fanno fatica a riconoscersi immediatamente e naturalmente italiani. Anche se hanno amici italiani, vanno a scuola e stanno bene in Italia.

Altro fattore è legato ai ricordi. Se la memoria affettiva/emotiva di fatti e parole legate alla cultura dei ‘padri’ è più forte e ricca, è più facile che il proprio ‘cuore’ si senta più attratto e vicino al mondo del Paese di immigrazione.

Infine, un altro fattore presentato dai miei alunni multietnici, multireligiosi e multi identitari è l’aspetto folkloristico, divertente e curioso delle tradizioni e usanze della storia dei propri genitori immigrati. A volte la particolarità e attrattività di alcuni riti o cerimonie o stili di vita colpiscono e coinvolgono maggiormente la scelta del Paese, della cultura preferita.

C’è quindi chi è nato in Italia e ha frequentato tutto il percorso scolastico italiano e si sente a casa in Italia, si sente parte di un popolo e di una storia che respira quotidianamente ed a cui è legato fortemente. Ma ci sono altri che, pur stando benissimo nel Bel Paese, preferiscono lo stile di vita, la visione del mondo, la cultura del popolo dei propri avi. Infine, altri che non sanno cosa scegliere e spesso si trovano a non sentirsi a casa qui da noi e neppure nel luogo dei genitori, dove magari vanno durante le vacanze estive o anche meno frequentemente.

Parlare di cittadinanza significa soprattutto far capire cosa significa per la propria vita personale e quali diritti e responsabilità comporta. Non è facile e oggi la complessità e velocita di cambiamento e di comunicazione del mondo esigono attenta riflessione e coraggiosa e liberante visione del futuro.

foto fb

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