La costruzione dell’Unione Europea ha portato alla depoliticizzazione delle istanze sociali, attraverso la gestione manageriale dell’economia.
Questo processo si è intensificato con l’introduzione della moneta unica, che ha consolidato un approccio neoliberale. L’Europa ha agito come guardiano dell’ortodossia neoliberale, specialmente durante la crisi del debito sovrano, implementando misure che hanno prodotto un assetto istituzionale di impronta postpolitica, caratterizzato da un approccio pragmatico e tecnico, volto a negare il conflitto politico.
L’Europa unita ha affossato il disegno istituzionalista di assorbimento graduale delle istanze dei subalterni (non più cittadini?) attraverso un conflitto mediato e regolato. Questo processo è stato formalizzato durante i negoziati del Trattato di Maastricht, che hanno introdotto principi come l’obbligo di comportamenti non inflazionistici e la necessità di ripensare le leggi dello Stato sociale, sostituendo progressivamente quest’ultimo con uno Stato minimo.
In risposta alla crisi del debito sovrano, l’Europa ha adottato misure volte a spoliticizzare l’ordine economico, attribuendo ai mercati il compito di disciplinare gli Stati. Ciò è stato facilitato dalla combinazione di due divieti nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): il divieto di finanziamento monetario dei bilanci pubblici (art. 123) e il divieto di salvataggio finanziario da parte dell’Unione (art. 125). Questi divieti hanno ridotto la capacità degli Stati di utilizzare politiche fiscali espansive per sostenere la sicurezza sociale e la redistribuzione.
La depoliticizzazione dell’ordine economico e la riduzione dello Stato sociale hanno avuto effetti significativi sulla giustizia sociale. L’imposizione di rigide politiche fiscali e di austerità ha limitato la capacità dei governi di affrontare le disuguaglianze sociali attraverso la spesa pubblica e le politiche di welfare, vedasi l’esempio della Grecia.
Questo ha contribuito a un aumento delle disuguaglianze e a una maggiore polarizzazione sociale.
Ora, movimenti come Black Lives Matter (BLM) sono emersi come reazioni alle ingiustizie sociali e alla violenza istituzionale. Questi movimenti, ed i loro episodi di violenza, rappresentano una risposta al fallimento delle istituzioni nel garantire equità e giustizia sociale. La loro violenza è spesso vista come un sintomo della repressione e della mancata risposta politica alle loro rivendicazioni. L’emergere di Black Lives Matter è emblematico di come le formazioni spontanee possano svilupparsi in contesti di profonda insoddisfazione sociale e di percepita ingiustizia. La mancata azione politica per affrontare e risolvere problematiche percepite (perché comunicate strumentalmente in modo clamoroso dall’opposizione al governo Repubblicano), quali la discriminazione effettuata dalle forze di polizia nei confronti della popolazione afroamericana, la paventata riduzione del welfare, e la diminuzione della sicurezza percepita, ha alimentato il senso di frustrazione e impotenza tra le comunità colpite, portando alla nascita di un movimento di base che ha guadagnato rapidamente visibilità e sostegno internazionale, e minando, al contempo, la sensazione di sicurezza di tutti gli altri cittadini.
Queste formazioni spontanee si creano spesso quando le persone sentono che i canali istituzionali tradizionali sono inefficaci, inaccessibili o sordi. La repressione statale delle proteste, attraverso l’uso determinato della forza, la sorveglianza intensiva e le misure legislative restrittive, non ha fatto che esacerbare il problema. Invece di risolvere le cause profonde del malcontento, tali azioni repressive hanno spinto i movimenti verso un’ulteriore radicalizzazione. La repressione statale non solo sopprime temporaneamente le proteste, ma può anche infiammare ulteriormente gli animi, creando un ciclo di azione e reazione che alimenta la violenza.
In Europa, gli Stati hanno adottato varie politiche e sistemi di controllo per prevenire la formazione di movimenti simili a BLM.
In Francia, per esempio, le autorità hanno utilizzato leggi antiterrorismo per reprimere le proteste e monitorare i movimenti di attivisti. Le forze di polizia hanno spesso utilizzato gas lacrimogeni e altre misure di controllo della folla per disperdere manifestazioni pacifiche, come visto durante le proteste dei Gilet Gialli e le manifestazioni contro la brutalità della polizia.
In Germania, il governo ha istituito il Cabinet Committee to Combat Right-Wing Extremism and Racism per affrontare i problemi di razzismo e violenza della polizia, ma ha anche intensificato la sorveglianza e le misure di sicurezza per controllare le manifestazioni. La polizia tedesca ha utilizzato una combinazione di leggi anti-assembramento e misure di emergenza legate alla pandemia di COVID-19 per limitare i raduni pubblici e le proteste.
In Italia, le autorità hanno implementato misure simili, utilizzando le leggi sull’ordine pubblico per limitare le proteste e monitorare i movimenti di attivisti. Le forze dell’ordine italiane hanno impiegato tattiche di repressione preventiva per scoraggiare le mobilitazioni, spesso giustificate dalla necessità di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica.
Queste politiche e sistemi di controllo hanno spesso compresso lo spazio democratico e limitato la libertà dei cittadini. La repressione preventiva, come l’uso di leggi antiterrorismo e misure di emergenza sanitaria per limitare le proteste, riduce la possibilità di espressione e organizzazione collettiva, soffocando il dibattito democratico e la partecipazione civica. In questo modo, le autorità cercano di mantenere il controllo e prevenire la formazione di movimenti che potrebbero sfidare l’ordine stabilito, ma al contempo comprimono le libertà fondamentali dei cittadini e ostacolano il progresso verso una società più giusta ed equa.
Cosa fare?
È necessario far tornare nell’ambito della discussione politica la questione sociale, alimentando contrapposizioni fra gli schieramenti politici e il dibattito politico stesso.
La ripoliticizzazione delle questioni sociali è essenziale per prevenire la deriva violenta dei movimenti popolari e promuovere una società più equa e giusta. È cruciale che le istituzioni politiche riconoscano e affrontino le radici delle ingiustizie che alimentano tali movimenti, offrendo canali efficaci per la partecipazione democratica e la risoluzione pacifica dei conflitti. Solo in questo modo si potrà evitare che il malcontento sociale sfoci in violenza e si potranno creare le condizioni per una società più giusta ed equa.
Questa strategia rappresenta una situazione vantaggiosa per tutti: riportando le questioni sociali in parlamento, si rilegittima la politica, si aumenta la partecipazione democratica alla vita della res publica, e si stemperano le possibilità di una deriva violenta da parte del popolo o autoritaria da parte dello Stato. Meno tecnocrazia, più Politica con la “P” maiuscola.