Un troppo pieno che lascia il vuoto.
Pietro Castellitto, nel suo secondo film in veste di regista, indossa i panni di Enea, ragazzo dell’alta società romana, anima inquieta ed errante, che, per sfuggire a quel senso di noia sfiancante che invade l’uomo e lo rende immobile, imbocca la sua strada in senso contrario per ricordare a se stesso di essere ancora vivo.
Purtroppo nulla di tutto questo stupisce; ci troviamo di fronte alla oramai ridondante scia stilistica del neorealismo romanesco, dove la capitale diventa un covo di esponenti di una malavita burina, di giovani deambulanti dagli ideali sterili di idee e di una borghesia autofagica. Figlio di un padre psicologo (Sergio Castellitto) che, incoerentemente a quanto dispensa, satura se stesso reprimendo rabbia, e di una madre (Chiara Noschese) conduttrice televisiva frustrata da matrimonio e carriera. Il clan familiare include anche un fratello minore capriccioso che lo venera (Cesare Castellitto) ed una ragazza (Benedetta Porcaroli) che, fiabescamente, da sogno diventa realtà. Enea, da buon figlio di papà, tra una lezione di tennis ed un ristorante di sushi, passa il tempo con il suo amico Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio) il cui retrogusto da ragazzo complesso fa da contraltare alla sua esuberanza distratta.
Per quanto i reali lineamenti dei vari personaggi vengano svelati a sceneggiatura inoltrata attraverso frame irrompenti e repentini, la definizione dei ruoli è ben chiara già dallo scambio dialettico a tre che apre il film, dove, ovviamente, Enea riveste il ruolo di outsider oratore di una verità sofferta.
Tra tentativi di dialoghi impegnati, sceneggiatura e scenografie raffinate, Castellitto ci mostra le conseguenze di questo mal di vivere, che, come testimoniano le cronache nere dei nostri giorni, trasformano la noia e l’assenza di una strutturazione del sé, in forme distorte del reale, dove il bene ed il male coesistono ed a volte si confondono. Motivo per cui Enea e Valentino decidono di imboccare la strada del malaffare, dove l’accumulo di denaro diventa un semplice dettaglio.
Anche se il titolo potrebbe far immaginare un film individuale concentrato sull’evoluzione involutiva di Enea, in realtà l’obiettivo è quello di un’opera corale in cui porre al centro il micro cosmo affettivo che gli gravita intorno, dove ogni personaggio ha la sua micro storia. La generosità nel condividere la scena non è però proporzionale allo spazio dedicato all’elaborazione completa dei singoli personaggi, declinati velocemente secondo contrapposizioni caratteriali orami da cliché narrativo: calma rabbiosa, sorriso amaro, irruenza fragile, socievolezza dolorosa.
La biforcazione della storia con cui a un lato mette in scena le dinamiche isteriche di una famiglia scheggiata e dall’altro quelle dissennate della criminalità, lo costringe ad un melting pot stilistico, passando dal dramma esistenziale, al gangster movie, da dialoghi arrovellanti ad omicidi violenti, insomma un Muccino-Tarantino dalla convivenza complicata, che potrebbe far perdere la bussola a chi guarda, lasciandolo a bocca asciutta.
Con una giusta calibratura, senza cercare di strafare pur di stupire, Castellitto potrebbe registrare un proprio marchio espressivo, una firma riconoscibile, perché dietro la macchina da presa c’è attenzione e ricerca di tecniche che possano rendere una narrazione elastica comunque fluida, con un montaggio non sempre prevedibile ed una colonna sonora contrapposta al tempo, scelta dal panorama storico italiano per dare quel tocco di tradizione cult.
Osservare ed impadronirsi del movimento fuori di noi per poi trasformarlo in una nuova forma di comunicazione, è un dono innato; ricercarlo scientemente è pericoloso, rischia di impoverirlo. Giusto essere ambiziosi, cercare ispirazione, guardare in alto, forse anche al dio partenopeo che dal monte olimpo del cinema trasforma immagini e dialettica in estasi ed estetica, capace di rendere tutto una Grande Bellezza, una bellezza che per Castellitto è troppo grande.