Dario Patruno
In realtà solo agli inizi del XX secolo la fotografia fu riconosciuta come forma d’arte. La prima fu scattata nel 1826 da Joseph Nicephore Niépce fuori da una finestra del suo laboratorio a Saint-Loup-de-Varennes, in Francia. Niépce usò una lastra di stagno ricoperta con una miscela a base di bitume.
Dal sito collezionedatiffany.com apprendiamo che “la fotografia ha una data di nascita “ufficiale”: 9 luglio 1839 quando al procedimento fotografico di Louis Jacque Mandè Daguerre (1787- 1851), scenografo e creatore di diorami (termine di origini greche che significa “guardare attraverso”, quindi guardare attraverso un vetro o un occhiale o qualche altro tipo di lente n.d.r.) viene concesso il brevetto dall’Accademia delle Scienze di Parigi. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del Novecento si è concluso quel processo, iniziato negli anni Venti, che ha portato a identificare la fotografia come una forma d’arte autonoma, che non imita la pittura o la scultura ma indaga la realtà e i temi della bellezza, del dolore, della vita attraverso un linguaggio autonomo e altrettanto autorevole.
Incuriosito dalla evoluzione che in tempi rapidissimi la fotografia sta assumendo, abbiamo pensato di intervistare un fotografo barese Mario Brambilla, classe 1959, barese di nascita che ha sviluppato fin da giovanissimo l’amore per l’arte fotografica, divenuta professione, divenendo titolare dello studio fotografico Officina Ricordi.
Questa passione lo ha condotto a studiare e percorrere strade poco battute nel panorama culturale italiano. A lui abbiamo posto alcune domande allo scopo di introdurre e svelare un mestiere difficile e poco conosciuto tra le professioni artistiche.
Come nasce la passione per la fotografia?
È ereditaria, mio nonno paterno stampava foto e mio padre è sempre stato un ottimo fotografo e io ho cominciato a maneggiare macchine fotografiche reflex e a stampare foto già da adolescente. Successivamente gli studi all’Accademia delle Belle Arti hanno trasformato questa mia passione in una professione.
Attualmente fotografo paesaggi (ho lavorato per due Parchi Nazionali), mi occupo di foto commerciali soprattutto nell’ambito food, ma la mia vera passione sono i ritratti. Credo fortemente nel concetto di ricordo e nel valore della fotografia come memoria storica. A chi non piace sfogliare i vecchi album fotografici con le immagini dei nostri genitori o delle nostre vacanze? Attualmente consegniamo decine di migliaia di foto, spesso inutili, alle memorie volatili dei nostri cellulari e dopo un po’ dimentichiamo di averle. Per questo ho chiamato il mio studio Officina Ricordi, perché è il luogo in cui fabbrico immagini, ritratti di persone o famiglie che, una volta stampati, diventeranno ricordi da conservare e tramandare.
Tutti diventiamo fotografi e pensiamo di essere bravi, grazie alle sofisticate camere dei cellulari, quindi perché affidarsi al fotografo, qual è il quid pluris, di un professionista oggi?
La fotografia digitale prima e poi gli smatphone hanno portato la fotografia ad uso e consumo di molti. Come ci ricorda lo scrittore Roberto Cotroneo quando il 16 marzo 1978 fu rapito Aldo Moro e sterminata la sua scorta in via Fani, le uniche fotografie esistenti furono fatte da un carrozziere dalla finestra della sua abitazione nei pressi della scena del crimine. Il carrozziere aveva con sé una macchina fotografica perché era uno strumento di lavoro per documentare le auto incidentate. Oggi da quelle finestre avremmo foto su foto di quell’orribile scena e probabilmente più verità e più chiarezza riguardo quello che accadde perché ormai la fotografia accompagna la vita e la giornata di ognuno di noi. Siamo passati dalle foto dei matrimoni, battesimi e vacanze, alle foto di qualsiasi cosa perché tutti hanno quotidianamente in tasca lo strumento per farlo. Ma non tutti sono fotografi. Cito testualmente il grande maestro Elliott Erwitt: “Tutti possono avere una matita e un pezzo di carta, ma pochi sono poeti”. I professionisti conoscono la tecnica, l’uso della luce, le inquadrature, ecc. e questo indipendentemente dallo strumento che viene utilizzato, macchina fotografica o cellulare che sia. Ma non è detto che l’essere professionisti fa di noi dei bravi fotografi. Io farei una distinzione non tra professionisti e amatoriali, ma tra fotografi bravi e meno bravi. Se dovessi dare due mie definizioni, direi che il fotografo professionista è colui che, in questo mondo inflazionato da immagini, sa rinunciare a uno scatto e soprattutto è colui che in grado di vivere vendendo il proprio lavoro e le proprie opere.
Il fotografo delle cerimonie (battesimi, cresime, matrimoni e anniversari in genere) va ancora di moda, ma cosa distingue i professionisti, gli artigiani dell’arte fotografica dai mestieranti del settore che tendono a soddisfare il cliente dovunque e comunque?
I mestieranti esisteranno sempre e in un mercato così difficile la preoccupazione di soddisfare le richieste del cliente è vincolante ma spesso necessaria per non perdere la commessa. Ma sappiamo anche che il professionista viene richiesto soprattutto per il suo stile personale, oltre che per la capacità di vedere in profondità ciò che altri non vedono e quindi riesce a imporre con gentilezza le proprie scelte stilistiche al cliente. Avere un proprio stile e seguire un proprio progetto costituisce la linea di separazione tra il mestierante e il professionista che in questo caso definirei meglio come “l’artista”.
Il maestro Helmut Newton “Qualsiasi fotografo che affermi di non essere un voyeur è uno stupido, oppure un bugiardo”. Una frase senza mezzi termini, proprio com’era. O lo si ama, o lo si odia: non c’è posto per l’indifferenza nel vocabolario di questo celebre maestro del bianco e nero. Condivide questo giudizio, visto che, visitando il suo studio, appare la sua passione per il bianco e nero?
La capacità di osservare in profondità è la radice stessa della creatività. Io definirei ogni fotografo “osservatore” più che voyeur. Ma nell’era del voyeurismo digitale è sicuramente un atteggiamento diffuso il fotografare ogni cosa, e pensiamo ai selfie fatti sui luoghi degli incidenti per esempio, ma questo non è una tendenza dei fotografi professionisti. Il vero professionista sa anche quando non scattare una foto.
Per quanto riguarda l’uso del bianconero, consideriamo che la fotografia è nata in bianco e nero, ma poi con la diffusione delle pellicole a colori negli anni ‘70 è iniziata la scelta dei fotografi tra le due tecniche. Chi come me proviene dalla fotografia analogica, sa che se un fotografo caricava la sua macchina con un rullino in bianco e nero, voleva dire che “pensava” già in bianco e nero. Nei ritratti che faccio nel mio studio mi lascio ispirare dalle sensazioni che il soggetto mi trasmette e scatto e stampo la mia foto scegliendo istintivamente a volte il bianconero altre il colore, senza una regola ben precisa. Istinto e gusto estetico sono la mia guida.
Ci sono corsi e scuole del settore in Puglia che veramente insegnano un lavoro?
Mi sono formato da autodidatta, studiando, ricercando, praticando, osservando e facendo apprendistato (gratuito). Questa è stata la mia scuola. Ma per fortuna ora le nuove generazioni possono accedere a corsi e scuole di fotografia anche di buona qualità qui in Puglia. Personalmente tengo dei corsi di educazione all’immagine e sulla creatività e mi piace trasferire le mie conoscenze anche in campo fotografico e far fare pratica a chiunque. Sempre considerando che è un mercato diventato davvero difficile e inflazionato per cui bisogna avere molto talento e determinazione.
Essere un autodidatta dà ragione di una professione difficile ma affascinante. Comprendere che fotografare per diletto non è sinonimo di professionalità, affidarsi sempre a professionisti anche per fotografare anche in ambiti privati è indicativo di saper distinguere e scegliere il meglio per sé e gli altri.