Accadde seicento anni fa (2 giugno 1424 – 2 giugno 2024)

di Giuseppe Lalli

Gli anni 1423-24 sono ricordati come la guerra di Braccio da Montone – Andrea Fortebraccio (Perugia, 1° luglio 1368 – L’Aquila, 5 giugno 1424), allorché L’Aquila fu coinvolta nella complessa questione della successione della regina Giovanna II d’Angiò (Zara, Croazia, 25 giugno 1373 – Napoli, 2 febbraio 1435), regina di Napoli, che, non avendo figli, nel 1421 aveva designato come suo erede Alfonso d’Aragona (Medina del Campo, 24 febbraio 1396 – Napoli, 27 giugno 1458), nominando altresì Fortebraccio governatore degli Abruzzi in cambio dell’appoggio contro Muzio Attendolo Sforza (Cotignola, Ravenna, 28 maggio 1369 – presso Pescara, 3 gennaio 1424), grande condottiero al servizio di Luigi III d’Angiò (Angiò, 25 settembre 1403 – Cosenza, 12 novembre 1434), altro pretendente al trono di Napoli  (1).

 

Giovanna II, inserendo nell’Italia meridionale un re spagnolo, rischiava di rompere l’equilibrio che sia pure a fatica nella penisola si stava realizzando. Nello scacchiere politico della penisola si andava profilando, come elemento nuovo, la possibilità che Braccio da Montone, come gli aveva promesso Alfonso d’Aragona, potesse costituire una rilevante signoria nell’Italia centrale. In tale prospettiva il condottiero perugino aveva occupato l’Umbria e parte delle Marche, minacciando l’assetto dello Stato Pontificio, che correva il serio rischio di essere smembrato, anche per le conseguenze di quello scisma che a partire dal 1378 aveva devastato il corpo della Chiesa e che si era appena ricomposto con l’elezione a papa, nel 1417, di Oddone Colonna – Martino V (Genazzano, 25 gennaio 1369 – Roma, 20 febbraio 1431). Le mire di Braccio erano ancora più ambiziose: egli ambiva alla conquista della stessa Napoli o, nel caso non fosse stato possibile, almeno alla legittimazione di quanto già usurpato (2).

 

Dall’esito dell’avventura dell’ardimentoso condottiero umbro sembrava dipendere l’assetto politico della Chiesa, del Regno di Napoli, del ducato di Milano e della Toscana. L’accorto Martino V, approfittando della rivalità fra Firenze e Milano, riuscì a coinvolgere Filippo Maria Visconti (Milano, 3 settembre 1392 – Milano, 13 agosto 1447) nella lega, che di lì a poco si formerà, contro Braccio, favorito a sua volta da Firenze in un’ottica antipapale. (3)

 

In questo quadro, L’Aquila, che in un primo momento si era mostrata favorevole alla politica di usurpazione attuata dal condottiero perugino, mutò atteggiamento allorché si avvide che un’eventuale signoria di Braccio avrebbe ridotto l’autonomia di cui la città godeva a motivo della sua natura demaniale. Tanto bastò che Braccio da Montone, il 12 maggio del 1423, si presentasse sotto le mura della città rimproverandole l’aperta ribellione ai legittimi sovrani e cingendola d’assedio. Da una parte, dunque, Alfonso d’Aragona, pretendente al Regno di Napoli e di Sicilia e il suo luogotenente Braccio da Montone, dall’altra papa Martino V, Filippo Maria Visconti duca di Milano, Giovanna II, che nel frattempo aveva ripudiato il figlio adottivo Alfonso d’Aragona e adottato Luigi III d’Angiò, e L’Aquila.

 

Campione della coalizione antibraccesca è il summenzionato Muzio Attendolo Sforza, che morirà il 3 gennaio 1423 portato via dalla corrente dell’acqua del fiume Pescara nel tentativo di riacciuffare un soldato che stava affogando (lo vendicherà il figlio, quel Francesco Sforza (Cigoli, 23 luglio 1401 – Milano, 8 marzo 1466) che, allora giovanissimo, partecipò alla battaglia, e che sarà nel 1450 il primo duca di Milano. Braccio, nella piana aquilana, si muove con facilità dal momento che il contado aquilano non tiene. A raccontarci queste vicende belliche sono i versi dell’«Anonimo aquilano », da molti autori identificato con Niccolò Ciminello di Bazzano (Bazzano, 1350 circa – L’Aquila, 1430 circa), presunto combattente nella guerra contro Braccio :

 

Asserece se dene a Peschiumaiure

E poco stette arrenderse Picenza

In Aquila sci n’era era gran dolore.

O contadini falzi ognuno penza

Braccio ne gìa lieto de bon core

A Carapelle a dare intenza

E in pochi iurni se fece prìa

E tutta se li dé la Baronia. (4)

Gli unici a tenere sono i castelli di Fontecchio, Rocca di Mezzo e soprattutto Stiffe, che resisterà indomita fino alla fine del conflitto, «dal quale L’Aquila e i collegati usciranno vittoriosi anche in virtù di queste isolate ma strenue e strategiche resistenze» (5)

Così Mario Chini, nel suo libro dedicato a Silvestro Aquilano, scrive ricordando quegli eventi di seicento anni fa:

 

Nel torbido periodo di agitazioni in cui si trovò il regno di Napoli per le contese fra Martino V e Giovanna II, con l’intenzione di tagliarsi nel panno del gran manto temporale della Chiesa o in quello un po’ più ristretto del Regno feudale di Napoli un suo mantello di principe laico indipendente, costò all’Aquila, che non si accorse (e non poteva accorgersi) come, vincendo Braccio, avrebbe probabilmente ritardato lo svolgimento della storia d’Italia nel senso della unificazione, sacrifici grandi e grandi dolori. Ma Antonuccio, aiutato di fuori dalle armi del Caldora e dello Sforza, riuscì a vincere. Nella battaglia campale del 2 giugno 1424, Braccio stesso fu ferito da prima, poi catturato, e, forse, ucciso sotto i ferri del chirurgo. E la memoranda giornata, che rese esultanti gli Aquilani, che fece loro istituire persino “la campana della vittoria” per commemorarla ogni giorno col suono del bronzo, li fece anche più rispettati e nel Regno e nella rimanente Italia. Dello stato di euforia, che ne seguì, è testimonio il poema in ottave, di ignoto autore, ma certo di non incolto pubblico canterino, che, in forma presso che romanzesca, innalza la guerra di Braccio alle altezze dell’epica delle crociate. (6)

 

Piace allo scrivente ricordare un episodio che avvenne a margine dell’epocale battaglia del 2 giugno 1424 e che ebbe come protagonista tale Antonio della Giacchetta.  Riferisce Nicola Tomei (Villa Sant’Angelo, 1718 – L’Aquila, 1792), preposto di Assergi dal 1742 al 1764, nonché primo storico del paese e della sua chiesa, come nel Tomo III di Antinori foglio 300, si leggesse che

 

nella rinomata guerra di Braccio, questo gran Capitano per impedire, che gli Aquilani, uscendo dalla città, si andassero ad unire all’esercito de’ Collegati, mentre si combatteva nel campo di Bagno, situò un distaccamento in un luogo opportuno da tagliar loro la strada. Quando poi nel giorno della battaglia 2 giugno 1423 uscirono gl’Aquilani per unirsi al campo, trovato l’ostacolo de’ Nemici, vi fu Antonio della Giacchetta, che co’ suoi Soldati disfece valorosamente il distaccamento Braccesco, ed aprì il passo; e fu questa la prima prodezza di quella gloriosa giornata. Or è indubitato, che tra le Antiche famiglie d’Assergi vi è stata la Giacchetta, detta oggi Cipicchia, come si ritrae dalla rozza inscrizione, che si legge nella Cona dello Spirito Santo, ed è la seguente: Jacobo, et Jo: Battista de Jacchetta e Fratelli nell’anno 1560 fundarono questa Cappella. Dalla piema diruta da tutti i fondamenti Jacobo e Jo: Battista e Fratelli eredi Cipicchia l’anno di nuovo redificata Sumptibus An. 1620.

 

«Non vi è ripugnanza – prosegue il Tomei – che quel prode Comandante potesse essere d’Assergi o almeno oriundo, sapendosi, che gli uomini delle Terre popolarono la Città, e che unitamente concorrevano in tutti gli affari di guerra, e di pace» (8).

 

La storia, come asserisce il nostro grande conterraneo Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952), è sempre contemporanea, nel senso che, allorché fissiamo l’attenzione su un determinato periodo o su un determinato tema, e diamo di essi una interpretazione piuttosto che un’altra, sempre siamo mossi da un’esigenza che si manifesta nel presente. La campale battaglia che si combatté seicento anni fa nella piana di Bazzano non fu un avvenimento periferico, come per molto tempo una certa storiografia ha ritenuto. Fu, al contrario – ma questo lo possiamo giudicare solo oggi, nel presente, appunto, con uno sguardo d’assieme – un episodio dal cui esito molto dipese l’assetto dello Stato Pontificio e molto dipese la capacità dell’Aquila di preservare uno status di autonomia che le veniva dalla sua natura di città demaniale(7).

 

A questo riguardo, è indubbio che, pur tra alterne vicende, significativo fu il contributo del contado – e in esso quello del valoroso comandante assergese – , quel contado che un secolo dopo pagherà il prezzo più alto dell’esito disastroso della rivolta antispagnola dell’Aquila. Non è retorico affermare che quel 2 giugno di seicento anni fa L’Aquila, in qualche modo, fece la storia, e un po’ di storia la fece anche Assergi.

 

Viene da chiedersi: in che misura la Storia, quella con la S maiuscola, è frutto di atti eroici individuali? E in che misura Dio si nasconde nei dettagli? Il sullodato Benedetto Croce, dall’alto del suo storicismo, forse avrebbe sorriso della prima domanda, assai meno della seconda, perché che Dio si nasconde nei dettagli proprio a lui è sfuggito. Lo diceva nelle conversazioni che teneva di tanto ai giovani studiosi che frequentavano a Napoli quell’Istituto italiano per gli studi storici da lui fondato. Lo diceva in tedesco, Gott ist im Detail, citando lo storico dell’arte Aby Moritz Warburg (Amburgo, 13 giugno 1866 – Amburgo, 26 ottobre 1929) forse – chissa?  – per farsi capire da pochi o per una certa ritrosia a rivelare i palpiti della sua anima (8).

 

 

NOTE AL TESTO

(1) Per gli aspetti della complessa vicenda, cfr. N. F. FARAGLIA, Storia della regina Giovanna, Lanciano, Rocco Carabba, 1904.

(2)  A. CLEMENTI, Storia dell’Aquila, Bari, Editori GLF Laterza, 2009, p. 63.

(3)  Ivi, p. 64.

(4) V. PARLAGRECO, La guerra di Braccio Poema di Nicola Ciminello, Aquila, Tipografia Aternina, 1903, p. 32.

(5)  A. CLEMENTI, Storia dell’Aquila, cit., 72.

(6) M. CHINI, Silvestro Aquilano e l’arte in Aquila nella metà II metà del sec. XV, Aquila, La Bodoniana, 1954 pp. 11-12.

(7) Cfr. R. VALENTINI, Lo stato di Braccio e la guerra aquilana nella politica di Martino V, in «Archivio della R. Società di Storia Patria», LII (1931), pp. 223–379.

(8) Cfr. G. DESIDERIO, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce, Macerata, Liberlibri di AMA srl, 2014, p. 297.

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