Editoriale di Daniela Piesco co-direttore “Radici” e direttore responsabile dell’ Eco del Sannio (http://www.ecodelsannio.it)
Premesso che la festa della Repubblica, assieme al 25 Aprile e al Primo Maggio, è tra le ricorrenze più importanti e costitutive del nostro essere cittadini responsabili, va sottolineato che il significato si è perso, anche perché nelle scuole i ragazzi sono raramente accompagnati in un percorso di consapevolezza e conoscenza storica.
Ma veniamo a noi. Se, come tutti sanno, la nascita della Repubblica Italiana coincide con la data in cui si svolse il referendum istituzionale con cui gli italiani andarono a votare per scegliere se mantenere la Monarchia o dare al paese una nuova forma di governo, ovvero la Repubblica, che significato assume oggi il premierato?
Non mi sono mai vergognata di essere italiana. Il nostro Paese , con tutti i suoi difetti macroscopici, mi ha permesso di vivere in una condizione di libertà e di uguaglianza, al riparo dalla dittatura e dalle costrizioni. Mi è stata data la possibilità di crescere, di studiare e di accedere, almeno sulla carta, a qualsiasi professione io desiderassi. E tutto ciò proprio a partire da quel 2 giugno 1946, quando si andò a votare per scegliere tra monarchia e repubblica, facendo, altresì, accedere al voto, per la prima volta senza distinzione alcuna, anche le donne.
La scelta della forma di governo repubblicana ha, poi, dato la possibilità all’Italia di cambiare il proprio destino e di aderire alle allora Comunità Europee, che poi hanno dato vita all’Unione in cui oggi ci troviamo a vivere.
Ma è davvero così? O meglio. E’ ancora così?
Premierato e autonomia differenziata sono lo scambio politico tra partiti della maggioranza a cui, per rimanere ai patti, si dovrebbe aggiungere la separazione delle carriere dei magistrati. Se dovesse passare questo disegno sarà la fine dello spirito costituzionale che nel 1948 portò all’approvazione della Carta. La logica sottesa è quella della verticalizzazione e della democrazia del capo al posto della democrazia della partecipazione e della rappresentanza. Una vera regressione da contrastare dando vita a una coalizione sociale e culturale per attuare i princìpi costituzionali.
Badate bene, non sto incoraggiando le nuove generazioni a scendere in piazza con i forconi o a protestare in maniera violenta e visibile. L’opposizione politica, a mio modo di vedere, è fatta di contenuti e non di vuoti declami e di lotte oppositive e dicotomiche.
Ma bisogna convenire sul fatto che è una realtà diversa da quella in cui ci troviamo, in cui la democrazia che conoscevamo sta iniziando a sgretolarsi sotto i nostri occhi.
Ci siamo dimenticati, dunque, dei sacrifici compiuti dai nostri padri per arrivare a quel 2 giugno 1946? Ci siamo dimenticati dell’impegno civile, della militanza, del reale significato della parità e del contrasto alle disuguaglianze, economiche, sociali e politiche? Ci siamo dimenticati di cosa voglia dire lottare per ciò in cui si crede e sacrificarsi per i propri ideali?
Probabilmente si.
Anche se in in Parlamento sono state apportate alcune piccole modifiche al testo originario della riforma sul premierato, non si tratta di un miglioramento.
In realtà si è soltanto provato a raggiungere un accordo politico tra Meloni e Salvini. Un’attenzione agli equilibri tra le attuali forze politiche di maggioranza del tutto estranea alla dimensione costituzionale che dovrebbe porsi a fondamento di una proposta di riforma. È questo, a mio parere, il difetto maggiore di tutto il dibattito sulle riforme costituzionali e sul premierato in particolare. Basta pensare alla questione del secondo premier posta solo per dare ascolto ad una richiesta di riequilibrio della Lega. Insomma, c’è da chiedersi se le riforme costituzionali si fanno per seguire le ubbie di una parte politica o per risolvere i problemi di fondo della democrazia italiana.
Leggendo il testo del governo si ha la sensazione che si voglia, attraverso quella riforma costituzionale ma anche attraverso una serie di leggi ordinarie, superare la Costituzione uscita dalla resistenza.
È esattamente questo il punto. È evidente che c’è una retorica che prova a tranquillizzarci, quella in base alla quale, in fondo, questa riforma tocca soltanto quattro articoli della Carta. Non si modificano – si dice – i poteri del nostro “amato” Capo dello Stato né si riducono quelli del nostro “malandato” Parlamento. La verità è completamente diversa: non solo si squilibrano tutti i poteri, ma si nasconde la vera posta in gioco, che è il tentativo di passare dalla democrazia pluralista a una democrazia del capo. È questo il discrimine che rende sostanzialmente inaccettabile il disegno di legge sul premierato, nonostante i tentativi di ridurne la portata. È, lo ripeto, l’elezione di un capo che porta a sbilanciare radicalmente il già precario equilibrio del nostro sistema democratico.
Anziché rafforzare il potere della presidenza del consiglio con l’introduzione dell’elezione del capo, bisognerebbe far sì che il Parlamento riacquisti quelli che gli sono attribuiti dalla Costituzione e oggi perduti.
Cosa si dovrebbe fare, allora?
Bisogna operare su altri piani rispetto a quelli in cui si sta indirizzando il dibattito politico. Innanzitutto, pensare ad una incisiva riforma dei partiti , legislativa, ma soprattutto politica e culturale che sia in grado di ricondurre le forze politiche organizzate a svolgere quella funzione che l’articolo 49 della nostra Costituzione gli attribuisce, cioè di permettere ai cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale. Per far ciò sarebbe necessario che i partiti riescano a riacquistare una loro effettiva capacità di rappresentanza sociale e non artefatta dal mito della governabilità senza popolo.
La democrazia muore senza nessuno che la preservi dalle storture e che l’accudisca costantemente, con impegno, serietà e dedizione, anche e soprattutto nelle piccole cose e nei gesti di tutti i giorni.
Ma vi è di più!
Esiste una coerenza politica e partitica tra la democrazia del capo e l’autonomia differenziata priva di una dimensione propriamente costituzionale.
Sono i partiti politici che si appropriano ciascuno per la loro parte di una fetta di Costituzione. Il programma di governo prevede infatti il premierato per Fratelli d’Italia, l’autonomia differenziata per la Lega, senza scordare la separazione delle carriere dei magistrati per Forza Italia. Una Costituzione fatta a fette tra le forze di maggioranza, altro che la Costituzione di tutti.
Tanto con l’autonomia differenziata quanto con il presidenzialismo (ora nella forma del premierato) si afferma la democrazia del capo. In ambito regionale a favore del presidenti di regione, nel secondo a favore del presidente del consiglio.
Come si può pretendere, quindi, un’attenzione focalizzata su uno Stato e una classe dirigente in cui si fatica a credere? Come fare per ricostituire quell’antico e prezioso legame che è stato forgiato dapprima dalla lotta al fascismo e, poi, dal sorgere della Repubblica italiana? Come ricucire quest’antico strappo?
Forse un buon punto di partenza potrebbe consistere in una rinnovata attenzione alle istituzioni del nostro Paese e in una maggiore educazione delle nuove generazioni ad interessarsi ai fatti di attualità, sospingendo queste ultime a non lasciarsi trascinare dagli eventi, ma spingendole ad esserne protagonisti.
Solo così, infatti, i giovani comprenderebbero che la festa della repubblica è soprattutto dedicata a loro, le nuove leve del Paese, le speranze per il futuro.
Pietro Calamandrei sosteneva che la nostra Costituzione non è mai stata realizzata. E allora, penso, bisogna mettere in campo una rivoluzione sociale, pacifica e democratica, che sia in grado di attuare i princìpi della Carta, a cominciare dalla centralità del Parlamento e dall’effettività della rappresentanza, guardando bene dentro gli slogan e le formule che ci vengono proposti. Ciò che dovremmo mettere in campo è una forte reattività sociale per garantire i diritti fondamentali e la democrazia costituzionale.
Mi rifiuto di credere che sia tutto perduto.
pH Fernando Oliva