La chiamano “la bionda” per via della folta chioma di capelli ricci. Potremmo definirla la Giovanna d’Arco della Palestina per il coraggio e la determinazione che la contraddistinguono. Un’icona importante e certa della resistenza per la causa palestinese.
Nata il 31 Gennaio 2001 a Nabil Salih, in Cisgiordania, rappresenta la seconda generazione di ragazzi palestinesi cresciuti nei territori occupati dopo la guerra dei sei giorni.
Nel 2018, a soli 17 anni, scontò 8 mesi di carcere inflitti dal tribunale militare per aver schiaffeggiato due soldati israeliani nel villaggio cisgiordano Nabi Saleh. La vicenda comincia il 14 dicembre, quando Mohamed Tamimi, 14 anni, cugino di Ahed, viene colpito alla testa da un proiettile sparato a bruciapelo da un soldato israeliano. La pallottola lo prende al naso e gli rompe la mascella prima di perforare la parte sinistra del cervello. Mohamed è sopravvissuto ma ha perso metà del volto.
Poche ore dopo dei soldati si appostano nella proprietà della famiglia mentre altri cercano di entrare in casa di Ahed: la ragazza vuole scacciarli, ne spintona uno e cerca di schiaffeggiare l’altro. L’unica cosa straordinaria di quest’evento, normale nei territori occupati, fu che la mamma filmò l’accaduto e lo pubblicò in streaming. Il video divenne subito virale. La telecamera fu al centro della questione. Per alcuni giornalisti, i soldati non risposero allo schiaffo solo perché filmati. Per l’opinione pubblica israeliana, la ragazza “umiliò” il soldato, ed è per questo che reagirono solo dopo che il video diventò virale. Nella notte del 19 dicembre fu presa da casa per farle affrontare un processo con ben 12 capi d’accusa contro di lei.
L’andamento della “questione” Ahed al Tamimi fa tornare in mente un progetto lanciato nel 2010 da una ong israeliana che aveva regalato 150 telecamere a giovani palestinesi per “rispondere al fuoco con le immagini” – shooting back, che in inglese significa allo stesso tempo rispondere con un’arma e filmare – e documentare la realtà palestinese dall’interno per raccontarla al mondo. Per i palestinesi è una questione di sopravvivenza: l’opinione pubblica internazionale è un interlocutore fondamentale per la Palestina, che vive sotto occupazione, non ha un’economia propria e vive di aiuti esteri