Del 15 Aprile 2024 alle ore 16:26
Emanuela, a 24 anni, è laureata in Mediazione linguistica e interpretariato e lavora nel settore
Autore: Rachele Bombace
ROMA – Crescere in comunità. Nelle strutture per minori molti bambini e bambine rischiano di diventare adulti. Cruciali sono i primi due anni dall’arrivo in comunità, che in genere è il tempo medio di permanenza, soprattutto per i bambini più piccoli.
Le tempistiche, però, cambiano quando ad arrivare sono i minori di 10-11 anni, per i quali andare in affido o in adozione diventa più difficile.
E per loro è realistica la prospettiva di trascorrere una parte dell’infanzia e dell’adolescenza in comunità, fino all’età adulta. Così strutture che sono state pensate e realizzate per accogliere il bambino nel periodo limitato che precede il rientro nella famiglia naturale, o in un altro nucleo attraverso l’adozione e l’affido, si trovano a fronteggiare un compito educativo di lunga durata.
Una dinamica che chiama in causa prima di tutto la garanzia dei diritti che accompagnano questa essenziale fase di crescita, in cui si forma la personalità dei minori.
Ci si domanda: queste strutture di accoglienza sono attrezzate ad accompagnare il bambino nella lunga durata? Conoscono e informano i bambini, che si avviano a diventare adulti, sui loro diritti? Emanuela Marianna Scurtu in comunità è entrata a 12 anni, dai 15 ai 17 ha avuto un’esperienza fallimentare di affido e poi è rientrata in comunità per uscirne da adulta.
Oggi, a 24 anni, è laureata in Mediazione linguistica e interpretariato e lavora nel settore.
“Ho vissuto in una struttura per minori per 10 anni e posso confermare che generalmente un percorso in struttura non dura due anni, ma 10, 11, 12, 15 anni. I minori in comunità diventano maggiorenni e nella maggior parte dei casi non hanno la più pallida idea di avere dei diritti”.
Emanuela ha dato la sua testimonianza alla Dire portando la sua esperienza al convegno “Affidamento dei minori, misure di intervento e di controllo sul sistema di tutela in Italia” in Senato, organizzato dal capogruppo di Fdi a Palazzo Madama, nonché presidente dell’associazione Rete Sociale, Lucio Malan.
“Immaginate un bambino di 5 anni che viene preso dal nulla, trasportato in un posto dove nessuno gli dice cosa succede, non sa nemmeno il perché è lì, e tutti quanti gli danno degli ordini che necessariamente dovrà seguire con il senso di colpa.
Perché la vittimizzazione secondaria parte dal bambino stesso- spiega Emanuela- che pensa di aver fatto qualcosa di brutto e cattivo per cui è stato inserito in una struttura, e nessuno gli spiega che è il contrario.
Nel mio percorso di 10 anni, ad esempio, nessuno mi ha fatto presente il mio diritto di poter contattare l’assistente sociale. Ho avuto accesso ai provvedimenti giudiziari che erano stati fatti per me circa un mese fa, perché io stessa lavorando nel settore ho scoperto che quello era uno dei miei diritti dal principio: il diritto alla partecipazione. Così sono andata a rileggermi tutti i provvedimenti che erano stati presi nei miei confronti”.
Emanuela è una donna forte, determinata, lei voleva studiare e mettere a frutto la sua esperienza per aiutare chi ha la sua stessa storia. Ormai da tre anni lavora per il Coordinamento nazionale delle comunità per minori (Cncm) come interprete e recentemente come attivista.
Si impegna affinché i minori fuori famiglia conoscano i loro diritti, così come le figure che ruotano intorno a loro. “Non potendo avere contatto diretto con i minorenni in struttura, non ci si rende nemmeno conto che la maggior parte del personale delle strutture per minorenni non conosce i diritti dei minori in comunità. Ci sono casi di ragazzi privati del legame con i propri genitori per mesi senza alcun motivo legittimo. Così i rapporti familiari si dissolvono, soprattutto nei momenti di disfunzionalità dei legami familiari. È necessario far presente ai minori in comunità- sottolinea Emanuela- che loro hanno dei diritti, che se pensano di subire degli abusi, anche dagli educatori stessi delle comunità, hanno un assistente sociale a cui rivolgersi. Cosa che non sanno. Ma soprattutto sono i minori che devono concordare il loro percorso di vita con il progetto educativo individualizzato”.
Quando Emanuela è diventata maggiorenne in comunità le “è stato negato il diritto di voto e il diritto costituzionale allo studio”. Andiamo per ordine. “Non tutte le segreterie universitarie sanno che esiste una legge in cui si stabilisce che il minore fuori famiglia fa nucleo a sè fino a 26 anni. Il problema del diritto allo studio – limitatamente alla Regione Lazio, che è stata messa a conoscenza della questione e sta cercando di prendere dei provvedimenti – è che gli organi che promuovono le borse di studio non prevedono la possibilità che un minore in comunità faccia nucleo familiare a sé.
Per loro si tratta di un ISEE sospetto a rischio frode- spiega Emanuela- in quanto un qualsiasi studente potrebbe uscire dal suo nucleo di famiglia per avere il diritto alla borsa di studio che altrimenti, con un ISEE alto della famiglia, non avrebbe.
Quindi, a prescindere, tutti gli ISEE degli studenti singoli vengono bloccati a meno che lo studente non sia in grado di dimostrare che da due anni vive da solo in una casa di non proprietà della sua famiglia, a titolo oneroso, e che lavora con un reddito annuo di almeno 6.000 euro da due anni. Se non assolve a queste due condizioni non ha diritto alla borsa di studio, e ovviamente tutte queste condizioni non si possono verificare per un ragazzo che vive in comunità”.
Emanuela non aveva “diritto di voto perché non aveva la residenza. Se diamo noi le residenze nelle nostre comunità- spiega Gianni Fulvi, presidente del Cncm- il Comune che ci invia i ragazzi, può poi negarci il pagamento perché non considera più questi ragazzi di sua competenza. La legge dice che non è così, ma c’è ignoranza sulle norme”.
I problemi da risolvere per i minori in protezione “sono ancora tantissimi- precisa sorridendo Emanuela, nel suo intervento al convegno- ma attraverso il Cncm, e insieme al presidente Gianni Fulvi, abbiamo molte occasioni di scambio con gli enti a livello europeo, in particolare con quello francese.
Spesso quando approccio al modello francese – al di là della tutela legale, che lì è più avanzata – io sono fiera dei legami che ho instaurato nella mia comunità e del percorso di vita che la mia comunità mi ha permesso di fare. Se non avessi avuto questo percorso, non sarei la persona che sono oggi. Sono contentissima e lo dico con fierezza, per via della qualità dell’intervento educativo che i nostri educatori sono in grado di mettere in campo pur non avendo competenze e conoscenze specifiche, senza una normativa ad hoc, uno stipendio adeguato e senza un ordine degli operatori di comunità”.
“Servono investimenti- secondo il presidente del Cncm- il numero degli assistenti sociali deve essere aumentato per garantire che l’affidamento familiare sia attuato come prevenzione- dice Fulvi- ma con l’affidamento familiare giudiziario siamo nella prevenzione terziaria, ovvero una imposizione. Emanuela dice sempre: ‘Nascere da una famiglia disfunzionale può essere una sfortuna, ma cadere in un sistema disfunzionale non è ammissibile’. Le due ore di assistenza domiciliare settimanali in una situazione complessa non sono sufficienti. Inoltre, gli educatori escono dai percorsi universitari senza conoscere il diritto di famiglia e non sanno nulla delle comunità di tipo familiare. Imparano standoci- conclude- e molto spesso sono più professionisti i ragazzi inseriti”.
fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it
L’articolo Crescere in comunità, la storia di Emanuela: “Non sappiamo di avere diritti” è già apparso su Il Corriere Nazionale.