Del 30 Marzo 2024 alle ore 07:56
Racconto 6 p.
di Yari Lepre Marrani
I palmi delle mie mani tastarono e cercarono su tutta la superficie ruvida del pavimento breccioso invano, si ferirono, trovai poche crepe e solo la durezza del terreno, delle pietre che lo informavano. Allora mi spostai verso il muro del quadro dello scuoiamento di Bartolomeo, accesi un altro fiammifero, guardai sopra la cornice, lo presi e lo gettai a terra e dietro ad esso non c’era che un blocco forte di altro muro, altri muschi, altra erbetta che fuoriusciva dalle sue crepe, poetico germoglio nell’inferno.
Poi toccai tutte le parti del muro accanto al quadro:nessuna fessura, nessun pertugio, nessuna apertura nella roccia. Le lancette correvano, correvano,non sapevo più che fare. Mi gettai a terra con il cerino acceso e feci quanto di peggio avrei voluto fare: cercare tra i teschi bianchi e giallastri abbandonati all’angolo della cella. Forse la chiave poteva essere dentro alle orbite vuote di quei crani. E misi le mie mani in quella porcheria di resti umani, cercai come un folle in tutte le orbite di quei teschi e nelle cavità dei nasi, li girai e rigirai, sentivo l’orrore della solidità di quelle ossa facciali bianche che puzzavano di morte e continuai sino a quando non li toccai e analizzai tutti, poi con gesto ancor più esasperato li tolsi di mezzo con le mani e con i calci e non vidi che un buco, una specie di tana all’angolo della cella che la massa dei teschi mi nascondeva.
Vi scorreva un minuto rigagnolo di acqua nera. Forse la mia chiave era lì. Ci infilai incautamente la mano. “Maledetto schifoso sorcio!” gridai oppresso da un improvviso, atroce dolore: infilata la mano un ratto me l’aveva subito azzannata, adesso le mie dita sanguinavano, il sorcio aveva morso l’indice e l’aveva leggermente scarnficato. Quella era la tana da dove uscivano quelle bestie schifose, non il nascondiglio della mia chiave. Il mio dito indice grondava sangue che cadde nel rigagnolo. Con un altro fiammifero acceso guardai l’ora: le 9.56. 4 minuti per vivere o morire. Questa volta la disperazione non servì da carburante ma quasi mi portò a perdere la ragione nel baratro che mi si apriva. Ma ancora non mi arresi. Cercai nelle fosse del teschio incastonato nel muro con le mani ormai tremanti non solo per la ferita ma per la ragione che perdeva via via la sua lucidità: niente.
Ancora mi avvicinai alle pareti muschiose, sempre più angosciato, ritoccai tutti i muri, ancor più approfonditamente, attraversai con le mie mani quella superficie rorida con il cuore che miseramente credeva o sperava di trovare un buco nel quale la chiave della mia salvezza fosse inserita, lo tastai tutto con l’ultima speranza del disperato ma le ruvide asperità di quei muri non nascondevano buchi e chiavi. Sentivo che i minuti correvano più velocemente del normale scorrere del tempo e solo per avvicinarmi alla mia fine; salii sulla rete del mio letto e cercai altre fessure o buche o pertugi dove la mia chiave di salvezza potesse esser nascosta; mi misi in punta di piedi, gridai dall’angoscia parole assurde, maledii quel luogo, e l’umanità e Dio e la mia vita che ad un tempo non volevo perdere nel supplizio.
Cercai ancora toccando a terra, dovunque, tra il sozzume e le corse infauste di quei roditori che dovevo cacciare a forza perché non si avvinghiassero a me e non trovando nulla a terra mi ributtai come un vero infelice che sta per perdere ogni speranza…ma ancora non l’avevo persa e ormai il tempo passava, pochi minuti, pochi brevi, infiniti minuti. E gridai “Maledetti!!” e di nuovo ecco il mio eco sotterraneo in quella prigione infernale. Mi girai verso il muro dove c’era il quadro, non sapevo più cosa fare. I fiammiferi stavano finendo. Ne accesi il penultimo e guardai in alto sopra alla rete del mio letto. C’era una mensola attaccata a due metri da esso, sorretta da due catenacci. Non l’avevo vista! Si, forse la chiave era proprio lassù, appoggiata. Forse la sorte non era così malvagia con me come credevo in quegli attimi.
La rete non mi era sufficiente per raggiungerla, così rimisi il materasso spesso su di essa e con il fiammifero tra le mani sudate e tremebonde e sanguinanti balzai su di esso e in punta di piedi mi spinsi con fatica in alto sino a toccarla quella mensola. Ma non riuscivo a raggiungerne la superficie, era troppo in alto. Così feci dei salti, cercai di raggiungere con la mano la sua superficie ma quando, spingendomi al massimo dello sforzo, toccai la mensola, questa mi cadde ai piedi sul materasso, spezzandosi come una vecchia logorata sedia mentre le catene che la reggevano penzolarono nel vuoto. Ero spacciato. Era la fine. Mi girai verso la grata in alto, verso quella gracile luce, ero sudato ed il mio saio bianco tutto inzuppato del frutto della mia fatica, angoscia e disperazione. Fui colto dal concreto pensiero della mia morte e gridai, urlai a quelle mura.
Segue..
L’articolo E’ ora, preghiamo fratello è già apparso su Corriere di Puglia e Lucania.