Il Complesso della Memoria è costituito dal Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto, dal Museo Nazionale dell’Internamento e dal Giardino dei Giusti del Mondo e si trova a Padova in zona Terranegra.
Ne ho parlato con Giuseppe Panizzolo, Coordinatore delle attività del Museo e membro della Federazione di Padova dell’A.N.E.I., Associazione Nazionale Ex Internati.
Dobbiamo partire da molto lontano, mi spiega, prima della Seconda guerra mondiale, quando don Giovanni Fortin viene incaricato dal vescovo dell’epoca di trovare del terreno per costruire una nuova chiesa parrocchiale. La vecchia parrocchia, un’antica chiesetta seicentesca, consacrata dal Vescovo Gregorio Barbarigo ed esistente a tutt’oggi, si trovava all’interno dell’Isola di Terranegra. Il giovane parroco (don Fortin nasce nel 1909) va in cerca della terra e la trova in una zona allora completamente isolata nella campagna. Riesce a trovare anche i finanziamenti e, con l’aiuto dei volontari della vecchia parrocchia, comincia a mettere le fondamenta.
Scoppia la guerra: i ragazzi “validi” di vent’anni vanno a combattere al fronte e gli adulti che sono già via non tornano a casa, per cui si bloccano i lavori.
3 settembre 1943: firma dell’armistizio di Cassibile (detto anche armistizio corto) e resa delle forze armate italiane a quelle alleate
Alcuni prigionieri riescono a fuggire dai campi di detenzione
A Chiesanuova (zona di collegamento con Vicenza) alcuni soldati inglesi, sudafricani e neozelandesi, tenuti come prigionieri di guerra e mandati a lavorare nelle aziende di zona, riescono a scappare dal campo in cui erano stati internati. Nasce la Repubblica Sociale Italiana (RSI), la cosiddetta Repubblica di Salò, regime collaborazionista della Germania nazista, voluto da Adolf Hitler e guidato da Benito Mussolini, al fine di governare parte dei territori italiani controllati militarmente dai tedeschi dopo l’armistizio di Cassibile. Si dà la caccia a tutti i militari scappati per riportarli dentro ai campi da cui sono fuggiti.
Si crea, allora, un sistema di protezione che coinvolge sia questi prigionieri che gli oppositori del regime e gli ebrei, la cosiddetta catena di salvezza di Padre Placido Cortese che aiuta le persone a scappare in Svizzera.
Don Fortin si inserisce nella catena per salvare quei militari scappati da Chiesanuova, ma la fame è tanta, ed il suo operato viene scoperto in seguito ad una delazione. Viene, dunque, arrestato e portato a Venezia per il processo dove subisce la condanna a morte tramutata, in seguito, in deportazione. Si aprono per lui le porte del campo di concentramento di Dachau. Riesce a sopravvivere fino alla fine della guerra e, tornato in patria, in seguito ad un voto fatto in prigionia, decide di dedicare la chiesa che stava già costruendo a tutta l’umanità sofferente degli internati, sia militari che civili. Troppa la brutalità vista ed anche subita.
Per cercare finanziamenti costituisce un’associazione del Perpetuo Suffragio per i morti nei Campi di concentramento tramite la quale riceve aiuti da tutta Italia raccogliendo gente che era stata nei campi di concentramento o che aveva avuto morti in famiglia: le mamme, le spose, le sorelle. Riesce a coinvolgere anche alcuni politici padovani e il vescovo ed ottiene un finanziamento dal Vaticano di un milione di lire dell’epoca.
Il Tempio dell’Internato Ignoto
Sarcofago con le spoglie di un internato ignoto
Affinché si crei la giusta struttura viene affiancato anche da padovani influenti, da architetti e da ex internati soprattutto ufficiali. Nasce il Tempio dell’Internato Ignoto che, pur avendo una chiesa parrocchiale cattolica, è dedicato a tutti coloro che hanno sofferto le atrocità della guerra, di qualsiasi razza e religione. Ancora oggi, quando il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria nel piazzale davanti viene invitata anche la comunità ebraica. Nel 1953, poi, a chiesa non ancora terminata (lo sarà solo due anni dopo), in seguito ad accordi presi dal rappresentante del governo italiano con la Germania, don Fortin porta al Tempio la salma di un internato ignoto cioè un corpo prelevato da una fossa comune da un cimitero di Colonia, un presunto militare. A seguito di una grande cerimoniala, la salma viene tumulata all’interno del Tempio. È tuttora visibile nella cappella di sinistra. Nella cappella di destra si trova, invece, la salma di don Giovanni Fortin assieme a quelle di alcuni I.M.I. (Internati Militari Italiani) morti nei Lager.
Tomba don Giovanni Fortin
Entrambe le cappelle sono adornate con nove vetrate, opera del pittore Antonio Bastianello (detto Bastian). Quelle della cappella di sinistra illustrano “la storia dell’Internamento”, mentre quelle della cappella di destra propongono “le Sette Opere di Misericordia Corporale”.
 
Nell’Abside il Crocefisso dell’artista Mirko Vucetich che sovrasta l’altare maggiore. Si tratta di un dipinto su legno che esprime la drammatica condizione dei deportati nei lager. La figura del Cristo, ridotto pelle e ossa, è coperta soltanto da un panno che cinge i suoi fianchi e che ha lo stesso colore delle casacche rigate dei deportati civili. Sul lato destro, poi, all’altezza dell’anca, un piccolo triangolo rosso ricorda quello che i prigionieri politici avevano cucito sul petto della casacca.
Il Tempio è riconosciuto come Sacrario-Ossario dallo Stato italiano. La bandiera italiana, simbolo della Patria, sventola su un pennone alla cui base è inciso il motto dell’A.N.E.I. : “Mai più reticolati nel mondo”.
Nel 1997 all’Internato Ignoto è stata conferita dal Presidente della Repubblica la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria.
Alle cerimonie ufficiali che facciamo qui, spiega sempre Panizzolo, partecipano tutte le autorità: abbiamo avuto anche due Presidenti della Repubblica quando, in passato, c’erano ancora i protagonisti della guerra. Tuttora continuiamo per le famiglie che hanno avuto dei parenti nei campi di concentramento. Adesso ci sono i nipoti, io stesso sono nipote di uno che è morto in campo di concentramento. Vengono dalla Sicilia, dalla Puglia, da Roma, dal Piemonte, vengono a vedere questo luogo che ricorda loro l’internamento e le sofferenze dei propri cari.
 
Il Museo
Accanto alla chiesa don Fortin, a completamento del luogo della memoria, fa erigere un museo in cui lui stesso inserisce i primi oggetti: i ricordi del campo di prigionia. Raccoglie, in seguito, altri oggetti portati da coloro che avevano condiviso il suo stesso dolore ed il martirio della guerra. Si riuniscono, dunque, intorno a lui sia militari che civili, persone di tutta Italia tornate dai campi o familiari di dispersi che cominciano ad alimentare con cimeli di ogni genere quello che diventa il Museo Nazionale dell’Internamento. E questo succede ancora oggi. Spesso arrivano figli o nipoti che trovano nelle cantine o in soffitta lettere, gavette o altri oggetti dei propri cari che hanno avuto la fortuna di tornare, perché di quelli che non sono tornati rimane poco o niente, al massimo la corrispondenza. Credono che sia meglio donare al museo piuttosto che farli finire nei mercatini e cancellarne la memoria.
All’interno del museo, ad oggi, si trovano pezzi unici. C’è la Madonnina in terracotta, o, meglio, in fango cotto sulla stufa in una camerata del lager di Wietzendorf. Quella è la Madonnina degli internati.
Negli anni ‘60 portarono qui Radio Caterina, la famosissima radio del campo di concentramento di Sandbostel.
Abbiamo anche il cappotto di un capitano medico, che all’epoca dell’internamento era tenente, Leandro Bonini. Ce l’ha portato il nipote che ha preso il nome del nonno.
Cappotto Tenente Bonini
Era stato internato a Fullen, nel lager dove i nazisti mandavano la gente a morire, soprattutto quella politicamente scomoda, i rompibae. Lo chiamavano “L’angelo di Fullen”, perché si sottoponeva a delle trasfusioni per curare tutti coloro che erano malati (e che, spesso, morivano) soprattutto di tisi. E andava anche in giro per le corsie a consolare ‘sti ragazzi.
Vista l’importanza del museo sono intervenuti prima il Comune di Padova nel 1995 lasciando la gestione sempre all’Associazione, poi la Regione Veneto che ha attribuito il titolo di Museo di interesse locale.
Svolgiamo anche un’attività didattica: parliamo di 3000-3500 studenti all’anno. Vengono le scuole del padovano, della provincia di Treviso, quella di Venezia, etc. Sono prevalentemente ragazzi della scuola media, seconda o terza, e delle superiori, soprattutto le quinte. Noi spieghiamo loro cosa è stato l’internamento, cosa è stato il fascismo, la dittatura, il genocidio. Qui i giovani, dopo aver studiato sui libri, vengono a toccare con mano. A volte, dico loro, ad esempio: “Questa gavetta, questi cucchiai che vedete, se noi andassimo a raschiare il fondo probabilmente, con gli strumenti che ci sono adesso, troveremmo il DNA di quello che li ha usati; in questa coperta che era per una persona e, magari ci stavano in due, chissà, troveremmo anche traccia delle lacrime, delle sofferenze.”
Gavetta
E i ragazzi ti ascoltano, ed anche gli adulti. Poi, certo, devi anche saper cambiare discorso al momento opportuno, siamo stati ragazzi tutti, però tornano a casa con la consapevolezza di ciò che è stato.
Quindi questo è il luogo della memoria. Accanto a questo, che è il passato, il Comune di Padova nel 2008 ha installato “Il giardino dei giusti” per stigmatizzare tutti gli eventi del 1900 che hanno generato brutalità e sofferenza nel mondo. La visita, dunque, continua parlando dell’attualità. In particolare, ci sono stati quattro grandi eccidi: gli ebrei; gli armeni (1915-1923, si parla di circa due milioni di armeni dell’impero ottomano); Hutu e Tutsi (il massacro in Ruanda del 1994. Si stimano almeno un milione di persone massacrate sistematicamente a colpi di armi da fuoco, machete pangas e bastoni chiodati); la guerra qui vicino a noi nel Kosovo (1998-1999, ancora non si conosce il numero di morti effettivo, dato che, ogni tanto rinvengono nuovi corpi).
Vagone d’epoca
La Visita
Giardino dei Giusti del Mondo
Il percorso inizia con un documentario, continua con la visita al tempio, al museo ed al vagone (nel cortile interno si trova un vagone originale dell’epoca, mod.1942G, che rappresenta il mezzo di trasporto in cui venivano costipati i prigionieri destinati ai campi di prigionia) e termina con Il giardino dei giusti.
 
La Storia sui libri di scuola ed Il Racconto degli Internati
La Storia – 8 settembre 1943: il Maresciallo Badoglio proclama l’Armistizio concordato con gli Alleati, già firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa. L’armistizio sancisce una vera e propria resa incondizionata dell’Italia alle forze Anglo-americane e la cessazione della collaborazione con le armate tedesche.
L’Italia è divisa in due: il Regno del Sud, costituito dal Re e da Badoglio che, nel frattempo, sono scappati in Puglia; i territori a Nord occupati dai Tedeschi che, dopo aver liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, lo pongono a capo della Repubblica di Salò, sul Lago di Garda. E comincia la caccia ai traditori! Prive di ordini precisi e di indicazioni operative per l’immediato cambio di fronte, le forze armate italiane si trovarono completamente impreparate per fronteggiare le truppe tedesche stanziate in Italia e sui fronti fino a quel momento comuni di guerra. Per l’esercito italiano, abbandonato dai suoi comandanti supremi e lasciato senza ordini, inizia lo sbandamento e molti soldati prendono la via del partigianato che va piano piano strutturandosi. All’estero, invece, migliaia di militari italiani scelgono di resistere ai tedeschi e, nelle varie zone dove fino a qualche giorno prima si trovano ad operare fianco a fianco, vengono catturati e spesso passati immediatamente per le armi. Molti trovano la via del lager.
Il Racconto – Si calcola che i Tedeschi siano riusciti ad arrestare un milione e settemila militari. Alcuni riescono a fuggire; altri, fascisti convinti, aderiscono alla Repubblica Sociale; 650 000, invece, non hanno aderito e sono stati portati nei campi di concentramento per i militari in cui si trovavano già soldati inglesi, americani, belgi, francesi, polacchi, cioè tutti quelli che i tedeschi avevano già preso dal 39 in poi. Ad ognuno di loro viene proposto di aderire alla Repubblica sociale italiana o combattere per il Reich. A coloro che rispondono positivamente si offre da mangiare, da bere e l’illusione di poter tornare in Italia. Gli altri (i più) vengono sbattuti nei campi di concentramento. In realtà, la Germania necessita di manodopera, perché tutti gli uomini sono impegnati al fronte e manca manovalanza nelle fabbriche e nei campi.
Hitler, poi, in accordo con Mussolini invece di considerare gli italiani prigionieri di guerra, si inventa la formula «Italienische Militär-Internierten» internati militari italiani togliendo loro la possibilità di essere aiutati dalla Croce Rossa Internazionale sancita dalla Convenzione di Ginevra. Per spiegarmi meglio Panizzolo mi fa un disegno. “Questo è il lager, qui sono reclusi gli ufficiali italiani, intorno ci sono quelli polacchi, francesi, etc. La Croce Rossa Internazionale arrivava fino qua (indicando le sezioni di altre nazioni, non la nostra). Da noi, al limite, potevano arrivare i pacchi della Croce Rossa Italiana consentiti dal governo della Repubblica Sociale Italiana. Ne avranno ricevuti tre su dieci…mio nonno ne ha mandati di pacchi: erano contadini e li riempiva di panbiscotto, castagne e poco altro.
Ma anche in Italia la situazione non era facile. Dopo lo sbarco di Salerno la nazione viene tagliata praticamente in due: una parte in mano agli alleati e l’altra in mano ai tedeschi. I militari lontani, così come quelli in Grecia o nei Balcani, non hanno alcuna possibilità di comunicare con le famiglie per due anni.
Dai lager, invece, arriva qualche lettera. Il freddo, la fame, le condizioni igienico-sanitarie sono le principali lamentele.
Se consideriamo una scala di considerazione dei tedeschi, nel gradino più basso c’erano gli ebrei, gli omosessuali, quelli che oggi si chiamano i diversamente abili; poi venivano i Russi, quindi i comunisti, gli slavi. In mezzo ci hanno infilato gli Italiani “badoliani, merde, traditori”. Trattai appena meglio dei russi. Più sopra tutti gli altri.
Divisa civile campo di concentramento
Il calvario di Don Fortin e degli Internati: i segni indelebili nel corpo e nell’anima
Don Fortin si trova confinato a Dachau in un blocco di circa duemila preti, il 95% dei quali provenienti da paesi dell’est. Qui hanno il compito di lavorare la terra, gli orti che, naturalmente, servono per le esigenze dei tedeschi, non certo per quelle dei prigionieri.
Nelle sue memorie, Don Fortin racconta che un giorno, dopo aver vangato la terra, mandano lui ed altri preti a prendere il concime. Il concime che devono caricare è la terra sotto i camini dei forni crematori. Questo per lui è ancora più doloroso delle botte che anche lui si è preso, della nudità a cui è stato obbligato: lui che crede in Dio, che ama e rispetta la vita altrui, si trova costretto a trasportare le ceneri dei fratelli morti.
I racconti degli ex internati sono tutti pieni di disperazione. E sono tutti uguali: il viaggio, la fame, il freddo, la vanga, le botte. E finché sono in vita non pensano ad altro.
Mi parla, poi, “de un vecieto che veniva sempre a trovarci”, Ezio, che portava in visita i ragazzi di San Giorgio in Bosco. Si metteva là a guardare il vagone e ti raccontava di quando anche lui era salito su uno di quelli.
Spesso i treni arrivavano da sud, dal confine con i territori in mano agli alleati. Alcuni li avevano presi in maniche di camicia e si sono ritrovati, poi, in Polonia oppure sul mare del Nord al freddo. Tra i bombardamenti e le soste per i rifornimenti, si arrivava ai campi di concentramento anche dopo 15 giorni. Costipati come bestie. Molte volte non li facevano neanche uscire compatibilmente con le necessità, ad esempio se arrivava un aereo che mitragliava il treno.
Don Fortin racconta, ad esempio, che dopo Innsbruck, andando verso Monaco, all’improvviso fermano il treno in aperta campagna ed ordinano loro in tedesco di fare i bisogni. Li obbligano a star fuori dai vagoni col culo alto a defecare.
Mi parla, poi, del racconto di un marinaio che descrive il vagone dove si trovava come un letamaio, perché non si erano mai fermati e avevano fatto tutti i bisogni davanti alla porta. All’improvviso fermano il treno in una stazione, aprono la porta e la cacca che era a ridosso della porta cade sul marciapiede. Allora arriva un tenente che intima: “Pulire!!! Pulire!!!” “E con cosa puliamo?” “Con le mani!”
La guerra ha privato la gente anche della propria dignità. Denudarsi, fare i propri bisogni insieme: quella era un’epoca in cui c’era il pudore, in casa i genitori non si facevano vedere mai nudi neanche dai propri figli. Non c’era la confidenza che c’è adesso. Questo raccontiamo ai giovani. E, soprattutto, ricordiamo loro che nella vita si ha sempre la possibilità di decidere tra il bene ed il male come fecero tutti quegli internati militari italiani a cui i tedeschi proposero di collaborare e a cui sarebbe bastata una semplice firma sull’Atto di adesione per uscire da quell’inferno e che dissero no.
Il mio ringraziamento va, oltre che al Sig. Panizzolo, anche al Gen. Maurizio Lenzi, Presidente ANEI/ Federazione di Padova/ Responsabile del Museo Nazionale dell’Internamento

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