Bloccati a Teheran i genitori di Mahsa che all’Europarlamento dovevano ritirare il «Sakharov». La Nobel Narges Mohammadi è in sciopero della fame, a Oslo il suo diploma verrà posato su una sedia vuota
Per Kiana e Ali quella sedia vuota è qualcosa di più di un mero effetto scenografico. È una ferita profondamente, intimamente conficcata nelle loro vite di diciassettenni. Quell’assenza – la stessa che domenica 10 dicembre risuonerà potente a Oslo durante la cerimonia per l’assegnazione del premio Nobel per la Pace alla loro madre, l’attivista iraniana per i diritti umani Narges Mohammadi – è scavata da sempre nei loro giorni, li accompagna da anni, li tallona come un fantasma, come un incubo. «Ho dimenticato il suono della sua voce, la sua altezza, il suo aspetto. Ho accettato questa vita. È un dolore terribile vivere senza tua madre, ma non ci lamentiamo», ha confidato Kiana a France 24. «Quando avevamo quattro anni, nostro padre andò in prigione.
Da allora in poi, o lui o nostra madre, erano rinchiusi in un carcere. Ci siamo abituati a vivere senza l’uno o l’altro», dice a sua volta Ali, suo gemello, prima di partire da Parigi, dove vivono, alla volta della capitale norvegese. E Kiana: «La rivedrò? Ho paura di no». Non ci sarà a Olso Narges Mohammadi, che ha iniziato un nuovo sciopero della fame. Le porte del carcere di Evin, a Teheran, dove la donna è seppellita da una valanga di condanne, non si sono aperte: la giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani è stata arrestata 13 volte, condannata 5 per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Come non ci saranno, mercoledì a Strasburgo per la consegna del Premio Sakharov, i genitori e il fratello di Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni morta mentre era in custodia presso la polizia morale iraniana perché “mal vestita”, la cui tragica fine ha “acceso” la rivolta in Iran del 2022. «Ai familiari di Mahsa è stato vietato di salire sul volo che li avrebbe portati in Francia nonostante avessero il visto», ha fatto sapere l’avvocato Chirinne Ardakani. «I loro passaporti sono stati confiscati», ha aggiunto.
A Oslo ci saranno, invece, Kiana e Ali, accompagnati dal padre Taghi Rahmani. Avranno un ruolo importante: riempire quel vuoto, colmarlo con le parole della madre, quelle parole che tanto spaventano il regime iraniano. «Non siamo nervosi, siamo molto orgogliosi di poter essere la voce di nostra madre e fare del nostro meglio per far andare avanti le cose. Il premio rafforzerà la nostra determinazione ad arrivare alla fine», ha raccontato Ali che, come la sorella, non vede la madre da nove anni e non la sente per telefono da almeno venti mesi. Il discorso scritto dalla madre – ha fatto sapere il marito dell’attivista – conterrà le parole chiave della lotta politica di Narges Mohammadi: «Libertà, uguaglianza e democrazia. Sono i concetti osteggiati dal regime. Sentirete parole sulla parità di genere, che per noi è un tema centrale. Narges chiede alla comunità internazionale di tenere alta l’attenzione sulla nostra gente che porta avanti la rivoluzione con azioni quotidiane. E che tornerà nelle piazze».
E ci sarà l’appello al mondo, alla comunità internazionale perché si scuota di dosso l’apatia, l’indifferenza, il silenzio. «Sono profondamente turbata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano», ha scritto Narges Mohammadi pochi giorni fa, in una lettera “filtrata” dal carcere e pubblicata in esclusiva da Avvenire. «La macchina delle esecuzioni ha accelerato in tutto il Paese (…) È la guerra del regime contro il popolo iraniano oppresso, indifeso e in rivolta», è il grido di dolore della premio Nobel iraniana affidato alla missiva. Quella della repressione della protesta di piazza, sprigionatesi dopo la morte di Mahsa Amini, è una delle pagine più oscure della storia recente dell’Iran. Tutta ancora da scrivere. Un rapporto pubblicato da Amnesty International ha denunciato come «le forze di sicurezza e dell’intelligence» abbiano commesso «atti raccapriccianti di stupro e altre forme di violenza sessuale contro le dimostranti detenute in modo arbitrario durante le rivolte “Donna, vita, libertà” in Iran tra settembre e dicembre 2022. Giudici e pubblici ministeri sono stati complici di questo, ignorando o coprendo le denunce di chi è sopravvissuto».
Nessun funzionario «è stato messo a processo per stupro o per le altre forme di violenza sessuale» che vengono documentate nel rapporto. Secondo i dati raccolti da Amnesty, oltre 500 persone hanno perso la vita durante la repressione delle proteste da parte delle forze dell’ordine mentre gli arresti sono arrivati a quasi 20mila.
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale

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