“Analisi del destino manzoniano fatta dallo scrittore e storico Yari Lepre Marrani”.
I confronti artistici tra due opere di uno stesso autore letterario sono sempre fonte di riflessioni e conclusioni il cui interesse si accresce proprio in virtù della comune paternità delle opere poste a confronto, per motivi che il lettore può serenamente comprendere valutando le peculiarità che tale raffronto può sviluppare rispetto alla comparazione di opere di autori diversi.
Il confronto tra opere di un medesimo, grande autore poetico sollecita maggiori enigmi e domande poiché parliamo dell’espressione delle sensibilità artistiche di una stessa mente, espresse in forme e argomenti diversi, ma che possono illuminare sui comuni denominatori della sua personalità, rivelati nelle opere stesse. Quando il confronto concerne, al di là delle singola opere, i principali protagonisti delle stesse, artisticamente legati da affinità poetiche, sostanziali e umane(benché trasfigurate dall’immaginazione dell’autore), il raffronto diviene più complesso e ambizioso. Uno dei parallelismi più importanti e celebrati della storia della letteratura romantica e moderna nasce dal massimo esponente del romanticismo italiano, Manzoni, grazie a due delle sue opere maggiori, il “5 maggio” e l’ “Adelchi”: i risultati poetici più elevati dell’autore che ha segnato e cambiato la storia della prosa italiana con il romanzo storico.
Prima di quest’ultimo,Manzoni ha composto due opere di elevato valore artistico e morale anche grazie alle affinità dei loro protagonisti: letterarie, religiose,poetiche,umane. Se il “5 maggio” è stata l’espressione lirica immediata del giovane Manzoni innanzi alla notizia, appresa il 17 luglio 1821, della morte di Bonaparte a Sant’Elena, notizia che ha segnato fulmineamente la sua eccitabilità umana prima che artistica tanto che il Manzoni stesso ebbe ad affermare che con la morte del Corso fosse venuto a mancare al mondo “un qualche suo elemento essenziale” (sue testuali parole), l’ “Adelchi” è frutto di un lavoro più ragionato e meno impetuoso, figlio più della riflessione storica dell’autore, delle sue ricerche che di un moto improvviso della mente e dell’anima. Se il 5 maggio rimane un’ode d’occasione insuperabile e insuperata, l’ “Adelchi”, dramma storico in cinque atti sulla catastrofe finale del regno longobardico (772 – 774 d.c.), fu ispirato al Manzoni da quella peculiare esigenza di analisi degli avvenimenti storici di periodi complessi, scelti dal poeta anche in virtù dell’umana grandezza o miseria dei suoi protagonisti. In Manzoni la riflessione sulla Storia, benché trasfigurata dall’arte, è riflessione psicologica sui suoi personaggi e sull’universale dramma umano,velata dalla sua concezione romantica e cristiana della Storia stessa, sempre sia possibile capire dove finisca il Manzoni romantico e inizi quello cristiano.
L’ “Adelchi” e il “5 maggio” non hanno solo un’affinità nel comune contenuto storico delle opere ma anche nei tempi ravvicinati in cui furono composte: la prima, iniziata nel 1820, fu terminata e pubblicata nell’ottobre 1822; la seconda trovò nello slancio emotivo e commosso dell’autore la rapidità della sua composizione: scritta di getto in tre giorni(17-20 luglio),fu pubblicata da Goethe nel 1823. Un dramma storico dai molteplici protagonisti e un’ode storica con un solo protagonista si congiungono nel destino di quest’ultimo e in quello, altrettanto tragico, della protagonista femminile assoluta dell’ “Adelchi”, Ermengarda, una delle creatura più dolci e patetiche partorite dal Manzoni.
Ermengarda(Desiderata), figlia di Desiderio, Re dei longobardi e sorella di Adelchi(protagonista dell’omonimo dramma, fedele al padre nel suo dovere guerriero ma anelante una pace che, in definitiva, gli verrà solo dalla morte), ripudiata da Carlo Magno, torna alla reggia del padre da donna reietta e sconfitta. La permanenza presso il padre sarà breve quanto lunga sarà la sua agonia interiore nel convento di San Salvatore a Brescia dove chiederà il permesso di rifugiarsi per raccogliersi nel silenzio del suo spasimo(canto IV). Figlia e vittima espiatrice di un mondo dominato dalla legge brutale della spada e della sopraffazione, nella veste claustrale di Brescia si compie la sua espiazione e la sua fine: è un’ostia sacrificale nel cui destino sembra compiersi un’intera vendetta gravante sui suoi avi, fautori di passati soprusi e delitti. Creatura femminile tipicamente manzoniana, Ermengarda, indifesa, conchiude simbolicamente il destino del suo popolo, ormai crollante innanzi all’appuntamento fatale con la Storia, nell’epilogo silente della sua vita. Il 5 maggio è l’opera letteraria che meglio esprime il mito romantico del napoleonismo inteso come leggenda legata al suo protagonista, alla sua avventura terrena e alle forze attrattive che quest’ultima ha avuto sull’immaginazione dei popoli europei. Più di Victor Hugo, del poeta cortigiano Monti e, più di tutti, di Stendhal, l’ode manzoniana stimola ed esalta i sentimenti popolari sempre affascinati e simpatizzanti per il meraviglioso, l’eccezionale.
Più che minuziosa analisi storica in versi, l’ode vuole cogliere la misura emozionale della vicenda bonapartista cogliendo, parallelamente, la morale che essa adombra. In questo modo la lirica civile d’occasione, partorita dall’impeto creativo del poeta eccitato dall’improvvisa notizia, diviene vettore di suggestione e stupore congiunte alla precisa volontà del poeta di sciogliere ai contemporanei e ai posteri un canto che è,anche, riflessione di giustizia umana e storica(“Ai posteri l’ardua sentenza”):un canto, il poeta lo sente, che non morirà facilmente nella coscienza comune(“Un cantico che forse non morrà”). Ecco l’esito naturale rispetto agli autori prima citati che hanno affrontato il napoleonismo: l’ode di Manzoni ha pochi riferimenti storici inerenti il suo protagonista, espressi in versi incalzanti ma generici(“Dalle alpi alle piramidi, dal Manzanarre al reno…” “…Scoppio dal Scilla al Tanai…”).
Occorre rilevare una differenza genetica tra i due personaggi che non elude affatto le affinità letterarie e i significati morali delle loro morti: Ermengarda è di stirpe nobile sin dalla nascita, il suo è sangue reale: principessa longobarda, figlia di Re Desiderio e Ansa; Bonaparte è un generale che si è fatto imperatore costituendo una nuova nobiltà nel vento spirituale di un’Europa uscita dalla Rivoluzione francese. Tanto differenti sono le loro origini quanto comuni le loro sorti, nel sigillo del dolore. Bonaparte, trasfigurato nell’ode da personaggio dominante un intero periodo storico a uomo sconfitto e straziato dai ricordi, è delineato nella sua eccezionale metamorfosi terrena: da despota d’Europa a uomo dolorante e dolente che all’azione fulminea sostituisce l’immobilismo di Sant’Elena, alla realtà il ricordo, all’audacia di nuovi sogni la contezza della fine. Ermengarda, simmetricamente, da regale principessa moglie del Re dei Franchi, cade dall’altezza mondana nel mondo degli oppressi, inesorabilmente falciati dal movimento della Storia( “Dalla rea progenie, degli oppressor discesa”): la femminea psicologia della protagonista dell’Adelchi, calata in fra gli oppressi, sostituisce all’amore regale del suo sposo e alla sua posizione principesca lo strazio della donna ripudiata e offesa la cui sostanza, prima brillante, scompare nel silenzio di un monastero.
Il condottiero vittorioso ora sconfitto(Bonaparte) e la principessa adulata(Ermengarda) s’incontrano nel passaggio dalla gloria, vissuta ciascuno secondo la propria posizione e il proprio sesso, alla realtà di figure dolenti perdute nei ricordi che diventano, in loro, sostanza di dolore. Per entrambi, secondo Manzoni, la provvidenza ha scelto la sconfitta e la fine nello strazio dei ricordi della passata grandezza. La materia etica e ideale della Storia s’innesta,ora, nella visione morale dell’autore: la sventura ha travolto Ermengarda, prostrandola sino a divenire donna ripudiata, indifesa e solitaria ma quella stessa sorte si muta, nell’Adelchi, in destino provvido(“Te collocò la provvida sventura in fra gli oppressi”) che l’innalzerà alla salvezza finale, ultraterrena. Bonaparte, sconfitto, scopre al limite della disperazione la nuova dimensione che renderà sostanza più intima e profonda la sua stessa vita: il dramma che ha sostituito la sua epopea lo colloca nella realtà infelice del dolore ma, come Ermengarda, è nell’apogeo del dramma che si affaccia, ad entrambi, la mano provvida di una salvezza che li collocherà in un mondo dove la mondanità è oscurità e tenebra.
La sintesi storica si compiace, artisticamente agli occhi dell’autore, della sintesi etica e cristiana: Bonaparte, nell’attimo in cui sta per cadere nel baratro del dolore per la sostanza dei ricordi che gli incombono mentre imprende a narrare se stesso, incontra la luce salvifica della provvidenza manzoniana che capovolge la tragedia in vittoria; Ermengarda, morente tra le suore,incontra la stessa mano provvidenziale che muta il suo pianto in una visione augurale. Entrambi sono corpi di espiazione: Napoleone espia nell’esilio il passato despota, Ermengarda le colpe sanguinose del suo popolo. Il sacrificio è provvidenziale: in entrambi la disperazione incontra la finale dolcezza consolatrice della parola cristiana e, con essa, il riscatto dalla superbia(Bonaparte) o dell’innocenza tradita di una vittima senza colpa(Ermengarda).
Un’ultima e più soave comunanza tra la fine dei due personaggi è nella simpatia affettuosa e cristiana con il quale Manzoni “accompagna” la morte di entrambi con la richiesta umana e certezza viva che Dio, con la loro morte e l’accoglimento delle loro anime, purificherà il loro spirito allontanando il peso di calunnie o disarmonie da parte del mondo. Così nel 5 maggio il poeta invita Dio, solennemente e pateticamente, ad allontanare dall’uomo morente ogni malignità umana (“Tu dalle stanche ceneri/Sperdi ogni ria parola”) come nel coro di Ermengarda, innanzi alla morte dell’eroina sofferente tra gli oppressi, la investe di dolci frasi confortatrici essendo egli certo che su quella morte triste nessuno oserà, come per Napoleone, suscitare malignità o oltraggi(“Muori compianta e placida; scendi a dormir con essi: alle incolpate ceneri nessuno insulterà”).
foto Alessandro Manzoni nel noto ritratto di Francesco Hayez esposto alla Pinacoteca di Brera Milano