Suonano davvero con una intensità particolare le parole pronunciate ieri da papa Francesco nell’incontro con la Commissione teologica internazionale. Non un «bel discorso» di teologia, ma quello che il Papa si porta nel cuore a partire dalla sua esperienza e dalle tante storie ascoltate. Mentre si consumano gli ennesimi episodi di violenza contro le donne, Francesco invita a capire «cosa è una donna e cos’è la teologia di una donna»; ancor di più a comprendere «la Chiesa come donna, come sposa».
Non ce ne vogliano quanti non sopportano l’associare al termine donna le categorie femminili con le quali la si è tradizionalmente pensata. Parlare della donna in questi termini non vuol dire certo che la condizione di sposa ne determini l’unica possibile realizzazione. È piuttosto una dimensione che ha a che fare con il modo d’essere, di sentire, di rapportarsi agli altri e al reale che è proprio delle donne. Essere sposa è come essere madre: lo si è anche se non si ha un marito e se non si hanno figli, almeno non biologicamente. Sta a indicare la capacità di assumere e di condividere senza riserve. Sposare qualcosa è aderire a essa pienamente. Si può sposare una causa, sposare una storia, sposare un ideale. C’è, dentro questo termine, l’idea di una dedizione totale, incondizionata.
Così è la Chiesa che aderisce totalmente al suo Signore e ha nell’annuncio del Suo amore la più profonda ragion d’essere cui sceglie di dedicarsi con tutte le forze, incondizionatamente. Sposa del Cristo, unita a Lui indissolubilmente, la Chiesa è anche sposa dell’umanità da amare, in Lui, altrettanto incondizionatamente. La condizione sponsale è della Chiesa nella sua totalità, in tutte le sue componenti. Tutti i membri della Chiesa sono chiamati a viverla; ma le donne lo ricordano in modo particolare, perché è sempre nel particolare che risplende quello che è di tutti. L’umano non è uniformità, ma diversità di sfaccettature: è fatto di sfumature e si comprende a partire da esse. La teologia fatta dalle donne ha questo sapore di adesione, di piena assunzione dell’umano, di dedizione incondizionata, di passione e di rigore. È una teologia che ha una carica di concretezza e una profondità di sguardo: quella che viene dalla capacità di visione, dal percepire interiormente l’esistenza degli esseri umani, la vita del mondo, e la vita di Dio che silenziosamente agisce in esse. Da qui, forse, l’energia che si avverte nelle parole delle teologhe, e che talvolta si fa fatica ad accogliere.
Non è semplicemente il pathos della rivendicazione, quanto piuttosto la forza di una intelligenza del reale che spezza la rigidità di schemi già dati e apre spazi di riconoscimento, sentieri di creatività nella docilità alla sconvolgente azione dello Spirito (che nella Scrittura ebraica è al femminile…) oltre ogni logica di esclusione, di scarto. Se è vero che la teologia deve avere il sapore della vita, che deve farsi per strada oltre che nelle aule dell’accademia, c’è un contributo importante che le donne possono dare e che stanno già dando al rinnovamento della teologia. La teologia ha già il volto di tante donne che hanno saputo dare un apporto importante allo sviluppo di tutte le discipline teologiche, portando tra l’altro in ambito teologico lo stile della collaborazione, di quel lavorare in rete che il proemio della Veritatis gaudium indica tra i criteri secondo cui la teologia deve potersi costruire. Bisogna solo che questo emerga più chiaramente e sia adeguatamente riconosciuto.
È quanto in fondo chiede il Papa anche alla Commissione teologica internazionale: che la presenza delle donne sia riconosciuta e resa visibile per l’apporto competente di cui sono capaci. Nella prima sessione del Sinodo dei vescovi, celebrata in ottobre, c’erano anche le donne: tra i membri dell’assemblea con diritto di voto, tra chi aveva il compito di coordinare il lavoro dei tavoli, tra gli esperti, tra chi ha presieduto l’assemblea; e una donna, madre Maria Ignazia Angelini, ha accompagnato con la profondità delle sue riflessioni spirituali le giornate del Sinodo. La voce e l’apporto delle donne sono stati preziosi e accolti con rispetto, direi quasi con naturalezza, come parte viva dell’assemblea, riconoscendo la qualità e lo spessore di esperienze di impegno e di competenze. Tutt’altro che una semplice pennellata di rosa. Ritrovarsi così come Chiesa è un grande segno di speranza. Ed è un valore da non smettere di ribadire.
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale
www.corrierenazionale.net

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