di Francesca Girardi 
Quanti significati ha una parola?
C’è il significato che si incontra nei dizionari e che potrebbe definirsi socialmente condiviso; accanto ad esso, c’è un altro valore correlato all’uso che l’individuo fa delle parole attraverso esperienze, confronti, dialoghi. Questi sono tutte occasioni di una nuova osservazione sui tanti significati che una parola racchiude,
Ad esempio, algoritmo. Sul vocabolario Treccani, tra le diverse definizioni, si legge: […] 1. Termine che indicò nel medioevo i procedimenti di calcolo numerico fondati sopra l’uso delle cifre arabiche…; 2. In informatica, insieme di istruzioni che deve essere applicato per eseguire un’elaborazione o risolvere un problema […]”. Una parola prettamente collegata al contesto matematico, tuttavia il contesto contemporaneo in cui la digitalizzazione influenza deontologicamente la condizione umana, l’algoritmo non rimane solo un concetto, ma può determinare una strategia relazionale.
Un altro esempio, e questa volta le parole sono due: pensiero filosofico. L’espressione richiama un’attività di pensiero, appunto, ma c’è un significato più profondo. Pensiero filosofico è pensiero d’azione, è un agire mosso da principi e valori dei quali si fa portavoce la filosofia, al fine di non abbandonare nell’oblio la sua capacità interpretativa. Parmenide sosteneva che il percorso della filosofia non si svolge lontano dal cammino degli uomini ma lungo il loro stesso sentiero, ciò sta ad indicare che la filosofia riceve dal contesto sociale, culturale e storico in cui gli esseri umani vivono gli stimoli e gli interrogativi cui dare risposte.
Le parole, quindi, designano concetti, ma anche relazioni. Il filosofo Ludwig Wittgenstein riteneva fondamentale dire tutto ciò che poteva essere detto perché avere un linguaggio limitato significava vedere un mondo limitato. Più parole si hanno, più possibilità si possono creare. Ogni dialogo, ogni confronto permette un circolo di parole, permette di fare la loro esperienza, e al tempo stesso, di narrare un’esperienza raccontandola.
Il linguaggio e la conoscenza sono interconnessi l’uno all’altro.
Nella prefazione di “Sillabe di seta”, raccolta di poesie di Emily Dickinson, si legge: […] in quella stanza, oltre a un cassettone e a un grande letto, c’era un tavolino a cui Emily Dickinson sedeva e dove, a scelta, come un chirurgo o un chimico, apriva, sezionava, ricuciva, portava alla luce frammenti di un discorso amoroso che aveva a che vedere non solo con l’amore per la vita e per le persone a cui era legata, legata, ma anche con il discorso stesso: con il linguaggio, la parola, le parole che le accadeva di leggere, nei libri, nelle biblioteche […].
Emily aveva la capacità di allacciare una relazione intima con le parole verso cui le stessa afferma di non conoscere nulla al mondo che abbia tanto potere.
L’autrice Esther Basile nel recente libro “Sinfonia a tre voci”*, traccia un ritratto della “parola” incontrando tre scrittrici, tra cui Dacia Maraini per la quale la parola è una nota musicale, la poesia è musica e le emozioni riescono ad essere espresse attraverso una musicalità. Anche in lei si afferma la potenza della parola intesa come creazione e poetare è sì scrivere in versi, ma anche dedicarsi a un’azione generatrice di una favola narrativa del mondo. Le parole vanno calibrate, se necessario, o fatte esplodere se questo è il loro scopo. Elsa Morante, racconta sempre Esther Basile, quando scriveva si dedicava con passione a ogni singolo periodo e […] solo quando le parole sono quello che devono essere e non altre suggerite dalla fretta, allora passo a un altro periodo […].
Le parole richiedono attenzione e un intervallo di tempo durante cui riflettere su quella che potremmo dire, geometria delle parole, ovvero la loro abilità di essere correlate l’uno all’altra in maniera ordinata, quindi chiara ed efficace.
Lascio a un estratto del discorso di Nadine Godimer**, premio Nobel per la letteratura 1991, la chiusura di questo contributo che vuole essere uno dei tanti aspetti presenti nella trama dell’infinita tela creata dalle parole: Nel principio era la Parola. La Parola era presso Dio, significava la Parola di Dio, la Parola che era Creazione. Ma, nel corso di secoli di cultura umana, la parola ha acquisito altri significati, tanto secolari che religiosi. Avere la parola è divenuto sinonimo di autorità suprema, di prestigio, di potere, di persuasione enorme e talvolta pericoloso, di facoltà di apparire nella fascia oraria di massimo ascolto o in un talk-show televisivo, di dono dell’eloquenza o delle lingue. La parola vola nello spazio, viene fatta rimbalzare dai satelliti, più vicina di quanto lo sia mai stata a quel cielo da quale si credeva provenisse. Ma la sua trasformazione più significativa, per me e per quelli come me, è accaduta molto tempo fa, quando venne incisa su una tavoletta di pietra o tracciata su un papiro, quando si materializzò da suono a rappresentazione, dall’essere udita all’essere letta come una serie di segni e poi come uno scritto, e viaggiò attraverso il tempo dalla pergamena a Gutenberg. Perché è questa la genesi dello scrittore, o della scrittrice: è la storia che ha scritto, facendolo essere. […]  Noi passiamo la vita a cercare di interpretare attraverso le parole le tracce che cogliamo nella società, nel mondo di cui siamo parte […] scrivere è sempre e contemporaneamente un’esplorazione di sé e del mondo; dell’essere individuale e dell’essere collettivo. Esser qui.
 
*Esther Basile, Sinfonia a tre voci, Homo Sapiens, Napoli, 2023.
** Gianrico Carofiglio, La nuova manomissione delle parole, Feltrinelli, Milano, 2021.

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