presentato al Mammoth film festival
 
Qt8: Quentin, da commesso del Blockbuster a genio del cinema
 
Mandiamo Heidi e la signorina Rottermeier a letto presto! Perchè arriva Tarantino!
Oggi vi raccontiamo il documentario che ci fa entrare nella mente del regista più “pulp” di tutti i tempi.
Se per qualche estremista religioso, è il feticista, il violento, il sadico, per tutto il resto dell’universo è “l’innovatore del cinema per eccellenza”.
L’artista che ha il dono della “luccicanza cinematografica”, direbbe Stanley Kubrick ed è capace di sparare le sue cartucce sempre, senza mai farci perdere l’entusiasmo di vedere i suoi film. Il documentario, diviso in capitoli, ci immerge nella mente visionaria del commesso della videoteca, che da autodidatta e con la sola passione per il cinema, diventa un regista di alto calibro.
Forse c’è gente che nasce per l’arte e l’arte si dona a questi uomini. Avrà venduto l’anima al diavolo Tarantino? Sarà quello il mistero della famosa valigetta, di Marcellus Wallace, con il criptico codice 666?
Percorriamo i suoi film, attraverso gli occhi dei suoi attori, stuntman e collaboratori, che ne ricordano gli aneddoti più particolari. Otto pellicole, unite dal sangue, ma non quello computerizzato, ma quell’intruglio rosso, puzzolente e appiccicoso, che compare sempre a litri, inondando set ed attori.
Otto film, che si accomunano, con temi che vanno dal razzismo, all’intolleranza per la misoginia. I suoi “eroi” sono sempre i “nigger” o le donne con gli attributi. Personaggi forti e ribelli, contro i pregiudizi della società.
Si parte dal Chapter one, con “Le iene” e “Pulp Fiction”, il primo film ed il film cult, siamo nei primi anni ’90. Artisti come Harwey Keitel, Tim Roth, Steve Buscemi e Michael Madsen, scommettono tutto, all’esordio del regista ed addirittura si portano i propri vestiti da casa per girare “Le iene”. I fondi messi a disposizione di Tarantino, sono pochi, anzi pochissimi, ma il film esplode, come i proiettili, che fanno la strage che tutti conosciamo, durante la storia.
In “Pulp Fiction”, Madsen viene sostituito da un insolito Jhon Travolta, che si ritrova per la prima volta nella sua vita da attore, con una pistola in mano, sicario del Boss, assieme a Samuel L. Jackson. Qui entriamo veramente nella mente di Tarantino, nel suo mondo fantastico, nel suo “Jack Rabbit Slims”, dove si fa un salto indietro negli anni ’50, in uno scenario quasi irreale. Comparse che impersonano camerieri con sembianze di attori famosi, Cadillac che diventano tavolini conviviali ed un palco, dove Mia Wallace (Uma Thurman) e Vincent Vega (Jhon Travolta) si esibiscono nel balletto improvvisato, che diventerà leggenda.
Finiamo gli anni ’90 del regista, con “Jakie Brown”, una pellicola forse più delicata, che Samuel L. Jackson definisce “il suo miglior film”. Attenzione le pistole ci sono sempre ed anche i criminali, ma dietro si cela anche l’amore velato dell’investigatore Max Cherry (Robert Forster) verso Jakie (Pam Grier). E’ lei, l’eroina di colore della storia, che si mette di traverso negli affari sporchi, del trafficante Ordell (Samuel L. Jackson), riuscendo a scappare col malloppo.
Facciamo poi un salto nei primi anni 2000, dove troviamo subito la saga di “Kill Bill”, “Grindhouse. A prova di morte” e “Bastardi senza gloria”. Qui notiamo la passione di Tarantino, per i film di arti marziali della Hong Kong di Bruce Lee, di Hitchcock e di guerra.
Richiami a quei film, si notano istantaneamente: la tutina gialla di Beatrix, come quella di Bruce in “The game of Death”, le scenografie orientali curate nei minimi dettagli e quei movimenti, che solo chi conosce il Kung fu, apprezza a pieno.
Ma Tarantino non scopiazza, si ispira, ci mette del suo, lo personalizza fino a renderlo proprio, arricchendo il tutto con le musiche, scelte sempre da lui, magari anche con cover di canzoni famose, che nel suo mondo funzionano meglio.
Finiamo all’ultimo capitolo del documentario, dove scopriamo l’atra passione del regista pulp, lo spaghetti western di Sergi Leone. Parliamo di “Django Unchained” e “The Hateful Eight”, dove ritroviamo litri di sangue rosso, puzzolente e appiccicoso dei primi film e la questione del razzismo e della schiavitù. La parola nigger si ripercuote nelle nostre orecchie decine e decine di volte. Ma Tarantino, la fa ripetere spesso e volentieri proprio al suo attore di colore e punta di diamante, Samuel L. Jackson. Forse per darne una sensazione meno discriminante.
Il documentario, comunque, ci fa scoprire la filosofia di un genio. Ci fa entrare nel suo “fantamondo”, fatto anche di sue invenzioni come le sigarette Red Apple, che appaiono in più pellicole, come anche altre concatenazioni. I fratelli Vega de “Le iene” e Vincent in “Pulp Fiction” sono parenti? Cosa accomuna “Volpi forza cinque”, l’episodio pilota di Mia Wallace, con i componenti della banda di Bill?
Questo è il mondo di un genio e forse con questo documentario riusciamo solo a guardare dal buco della serratura di una porta che si apre sull’originalità di un ex commesso di Blockbuster.
Isabella Berardi

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