di Cristina Fontanelli
Oggi l’uso del telefono è status symbol acquisito, una mania che diffusa globalmente coinvolge persone d’ogni età e ceto sociale. Spesso si continua tuttavia ad ignorare che la paternità di quest’ingegnosa invenzione appartiene a un toscano doc che costretto ad emigrare all’estero, è al suo tempo deceduto povero, dimentico e usurpato dei suoi eccezionali meriti d’innovatore planetario.
Fra i personaggi che rafforzano la nostra identità nazionale nel mondo va sicuramente incluso Antonio Santi Giuseppe Meucci (Firenze, 13/04/1808 – New York, 18/010/1889), avanguardia sociale, eclettico inventore e autentico homo faber che con la sua geniale invenzione del telefono è riuscito a coniugare abilità e saperi diversificati in un mix di creatività, tecnologia, artigianato e impresa. Dagli anni della sua giovinezza egli svolse mestieri innumerevoli e fu dedito alla creazione di vari marchingegni, oltre a prototipi telefonici e apparecchi elettrici. Ancora in età avanzata Meucci fu instancabile imprenditore Made in Italy brevettando all’estero ulteriori eccezionali dispositivi e proponendo varie innovazioni fra cui bevande frizzanti, condimenti alimentari, oli per vernici, ecc. Dal 1821 il giovane Meucci aveva frequentato l’Accademia fiorentina di Belle Arti, acquisendo in loco nozioni d’arte, ma anche di chimica, fisica, acustica ed elettrologia, formazione basilare che avrebbe in seguito utilizzato per creare i suoi eccellenti strumenti. Frequentatore di ambienti risorgimentali, il mazziniano A. Meucci svolse diverse attività che fu costretto poi ad abbandonare per sfuggire al clima ostile creato dal regime granducale verso certe idee, ragion per cui molti connazionali e lo stesso inventore fiorentino optarono per la via dell’esilio. Dal 1835 Antonio Meucci scelse di soggiornare a Cuba dove ben retribuito (trentamila dollari l’anno) fu assunto dal più importante teatro cubano scritturato come ingegnere, macchinista e disegnatore scenico.
Sbarcato all’Avana con sua moglie Ester, egli divenne Sovrintendente tecnico del Gran Teatro de Tacòn e oltre ad occuparsi di meccanica teatrale, fu dedito anche alle dorature degli armamenti dell’esercito, alla depurazione delle acque, all’elettroterapia per la cura dei malati, e pure all’imbalsamazione dei defunti, oltre alla galvanostegia (fu il primo ad introdurla in America), attività per le quali raggiunse notevole ricchezza, rivelandosi eclettico inventore. Grazie al perfezionamento delle sue apparecchiature intorno al 1849, proprio all’Avana, risulta accertato che, perfezionando la sua idea già praticata al Teatro fiorentino della Pergola, sperimentò il suo primo “Telegrafo parlante”, impianto che consentiva la comunicazione della voce a distanza per mezzo dell’elettricità attraverso un filo metallico che egli stesso definì “il migliore strumento che mai feci”. A causa di un uragano che distrusse il Gran Teatro dell’Avana, Meucci e sua moglie, divenuti ormai disoccupati, si recarono nell’isola di Staten Island, nei pressi di New York dove abitarono dal 1850 al 1889.
Aggregandosi alla Comunità degli immigrati italiani Antonio Meucci attivò qua alcune imprese commerciali, fra queste una fabbrica di candele steariche di paraffina (da lui stesso inventate), dove impiegò molti connazionali, fra i quali l’eroe dei due mondi Garibaldi. Quando un incendio distrusse la New York Paraffine Candle, l’intraprendente fiorentino aprì anche una birreria, mentre successivamente inventò una vernice per conservare il legno; avviando poi una manifattura di carta d’alga, e in seguito anche una fabbrica di pianoforti. A livello storico, dopo lunghe controversie, è stato accertato che nell’800 l’invenzione del telefono fu realizzata da A. Meucci : riconoscimento giunto postumo poiché solo l’11/06/2002 il Congresso U.S.A. ha disconosciuto il merito della scoperta dapprima attribuita a Bell, assegnando invece il primato dell’invenzione del telefono al toscano che a Cuba creò il 1° apparecchio telefonico della storia (*). Per salvaguardare la paternità della propria idea, in una lettera inviata il 6/03/1880 all’”Eco d’Italia” (pubblicazione di New York), Meucci denunciava pubblicamente “riguardo al come si usurpino le invenzioni, o fatiche degl’italiani”. Mentre in una lettera del 2/06/1889, indirizzata a un suo amico, Meucci scrisse “… mi fa male il pensare che ladri del genio altrui vedono il nome loro portato sugli scudi da popoli che nel penoso arrabattarsi d’ogni giorno non hanno tempo di riconoscere chi pel popolo lavorò davvero amandolo.
Così vanno del resto, quasi sempre, le cose del mondo …“. A seguito dell’usurpazione di merito, povertà e malattie debilitarono assai Antonio Meucci che ottantunenne si spense il 18 ottobre 1889 nella sua casa di Clifton. Il resti del suo corpo sono ancora conservati a Staten Island, presso il Garibaldi-Meucci Museum, monumento eretto in sua memoria dalla Comunità degli Italiani d’America. Tanti anni dopo, anche la sua città natia volle onorarlo ritraendolo in un bassorilievo all’esterno dell’ufficio fiorentino delle Poste e Telegrafi di via Pellicceria : “Antonio Meucci inventore del telefono morì nel MDCCCLXXXIX in terra straniera povero e defraudato dei suoi diritti. L’Italia di Vittorio Veneto e la sua Firenze ne rivendicano con materno orgoglio la gloria”.
(*) L’11 giugno del 2002, il Parlamento americano ha approvato la risoluzione N°269 (presentata dal deputato Vito J. Fossella), con la quale ha definitivamente riconosciuto che la paternità del telefono spetta ad Antonio Meucci. Tenuto conto che quest’ultimo lavorò senza posa per la realizzazione del primo “Telettrofono”, strumento basato sulle comunicazioni elettroniche che sperimentò all’Avana già dal 1849 (all’epoca Bell aveva appena due anni d’età …), la Camera statunitense ha decretato che “intende dare riconoscimento alla vita e alle conquiste di Antonio Meucci, prendendo atto del lavoro da lui svolto nell’invenzione del telefono.
di Cristina Fontanelli (Ricercatrice e Giornalista Culturale)