di Francesca Girardi
Sapere e quindi saper fare. Di certo oggi giorno, nonostante le problematiche e le difficoltà che coinvolgono il mondo, potenzialità e strumenti a sostegno del sapere e del saper fare ve ne sono in abbondanza. Tutorial, corsi on line, materiale digitale e cartaceo, tutto contribuisce a rendere percorribile e, soprattutto ancor più accessibile, la strada verso una conoscenza, un sapere. Un aspetto che, per certi versi, tinge di democrazia la conoscenza o, quantomeno, le basi di qualsiasi settore la interessi. La storia insegna quanto il sapere abbia accorciato le distanze con le persone; da epoche in cui la sapienza era meta verso cui pochi, pochissimi, potevano ambire, pian piano si sono tracciati sentieri che l’hanno resa raggiungibile. Alla pari, va detto che vi sono anche testimonianze di come, nonostante il fato non sia stato prodigo nel portare l’esistenza sul sentiero giusto, la volontà abbia rappresentato la lente attraverso cui  guardare la meta, non perderla di vista e raggiungerla. A tal proposito cito William Kamkwamba, di lui ne ho parlato in un recente articolo: un quattordicenne la cui curiosità e ingegno sono stati guida, nonostante non fosse “scolaro”, alla realizzazione di un’opera che ha portato alla sopravvivenza il suo villaggio.
Retrocedendo nel tempo, troviamo un altro esempio, seppur linguistico, e segno che la strada della conoscenza e del sapere si apprestava a crescere: sapere aude, “avere il coraggio di conoscere, avere il coraggio di credere nel proprio intelletto, nelle proprie capacità”. Se ne trova una eco facendo, questa volta, un balzo in avanti, nel pensiero filosofico di Martha Nussbaum, filosofa del XX secolo, la quale afferma l’importanza del valore che ogni persona ripone nella capability, in ciò che sono realmente capaci di fare e di essere, e che rappresenta la minima e necessaria base sociale.
Ogni persona è portatrice di valori umani, e lo è attraverso ragione, pratica, socievolezza. Tre elementi che animano la società contemporanea.
Tornando a quanto espresso in apertura articolo, assistiamo a una esposizione molto ampia di possibilità di apprendere, e qui viene il nodo. C’è differenza tra un sapere appreso attraverso sentieri “obbligatori e riconosciuti”, oppure tutto ciò è lontano da un’altra forma di sapere che seppur convalidata da riconosciuti e iniziali percorsi di apprendimento, viene poi rafforzata dalla voglia, dalla fiducia di sapere e quindi poi saper fare ciò che si è capaci?  Perché, se da un lato si intravede un’apertura a nuove vie, dall’altro ci sono sempre più etichette che sembrano necessarie a collocare un’abilità, una professione. Se nell’800 Matilda Joslyn Gage, scrittrice e attivista americana, nonché autrice del saggio“Woman as an Inventor”, portava in luce il mancato riconoscimento a una donna di avere genio inventivo, oggi forse si assiste al mancato riconoscimento di una forma di sapere, che sebbene non possa vedersi appiccicata un’etichetta, è comunque valida, nata da apprendimenti e cresciuta non solo attraverso studi, bensì attraverso le esperienze?
E sapere è saper fare, oppure il verbo fare è il valore aggiunto, e al tempo stesso caratterizzante della competenza seguita e coltivata in quanto attitudine naturale e accresciuta attraverso l’altro valore aggiunto apportato dall’esperienza?
Oggi è meglio sapere o saper fare? La risposta vorrei trovarla nelle generazioni che attraverso la condivisione e collaborazione reciproca, permettano a chi sa, di saper fare. E, allo stesso tempo, chi sa fare permetta l’apprendimento a chi sa.
Un gioco di espressione, un dedalo di parole, e un umile richiamo a quanto Umberto Eco definiva come condizione fondamentale dell’essere umano: la condizione fondamentale dell’essere umano è il rapporto con un altro essere umano.

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