di Donatello D’Andrea
Sabato 7 ottobre una pioggia di missili si è abbattuta su Israele, seguita da numerose incursioni di terra che hanno colto di sorpresa e spiazzato l’esercito israeliano, ampiamente impreparato. Il bilancio dei morti e dei feriti è uno dei peggiori da quarant’anni a questa parte. Sul banco degli imputati finiscono i servizi segreti, il governo Netanyahu e una classe dirigente così litigiosa e distratta da aver ampiamente sottovalutato la capacità di Hamas di armarsi, studiare una strategia e attaccare.
A distanza di diversi giorni dall’attacco, con una risposta di terra da parte di Israele che tarda ad arrivare, sarebbe opportuno interrogarsi sulle conseguenze, sui rischi e sulle opportunità – soprattutto per Hamas e per il mondo arabo anti-israeliano – che l’evento porta con sé. Una sfida aperta all’Occidente, agli Stati Uniti – che, da alleati di Israele, si trovano a dover confrontarsi su scenari tra loro lontanissimi e con risorse prosciugate dal gioco ucraino – e alla stabilità di un’area che torna ad essere, almeno per i media occidentali, una polveriera.
Analizzare i vari aspetti – politici, militari, psicologici – dell’attacco di Hamas è utile per delineare con estrema precisione il quadro all’interno del quale lo scontro tra israeliani e terroristi assume dimensioni ben più ampie del classico conflitto regionale.
La debacle israeliana è innanzitutto politica
Fin dalle prime ore dell’attacco condotto da Hamas, i media hanno cercato chiaramente di comprendere quali fossero le ragioni dietro una sonora debacle dei servizi di sicurezza e di intelligence israeliani. Una falla evidente, le cui ragioni prima che militari, in molti, ritengono – a ragione – politiche. Infatti, anziché lanciarsi a capofitto nell’analisi delle implicazioni militari e che hanno condotto Israele verso una delle più cocenti “sconfitte strategiche” da molti anni a questa parte, sarebbe opportuno analizzare il contesto politico in cui il suddetto attacco sia maturato.
Gli analisti ritengono che Hamas stesse preparando quell’attacco dal 2021. Cosa confermata dagli stessi terroristi qualche giorno fa. Di conseguenza tutto l’apparato preventivo non sarebbe riuscito ad intercettare o percepire alcuna informazione, anche parziale, circa la preparazione di un’operazione studiata fin nei minimi dettagli. Di solito Israele possiede una rete di intelligence molto ampia e ramificata, anche nei territori occupati.
Recita una regola non scritta: “il fallimento dell’intelligence è sempre da ricondurre a un fallimento della politica”. Se diminuisce la lucidità del sistema politico, diminuisce anche la lucidità dei servizi di intelligence, i quali hanno bisogno di un equilibrio politico per funzionare efficacemente. In effetti, le turbolenze del governo israeliano potrebbero contribuire a spiegare tutto ciò. Per nove mesi l’esecutivo di Netanyahu ha posto l’attenzione su altro, a partire dalla contestata riforma della Giustizia voluta dal suo esecutivo per frenare l’influenza della magistratura sul processo legislativo e sulle politiche pubbliche, limitando la Corte Suprema e le manovre del leader de Likud per accontentare le istanze dei partiti estremisti suoi alleati. Il fatto che tutto ruotasse attorno alla riforma ha distolto l’attenzione del governo da questioni più urgenti, come la difesa.
Un altro dato politico importante riguarda la percezione da parte israeliana che la questione palestinese fosse ormai una questione non più prioritaria per la comunità internazionale e che quindi l’accordo con i sauditi, promosso dagli americani, potesse risolvere il problema della sicurezza israeliana. Inoltre, la politica ha anche responsabilità militari dirette, in quanto prima del 7 ottobre, è stato deciso uno spostamento di truppe che erano di stanza sulla Striscia di Gaza verso la Cisgiordania, per proteggere i coloni israeliani, scoprendo il fianco. Un errore tecnico-politico gravissimo.
Dal canto suo, Hamas ha voluto sfruttare l’occasione, offertagli dal governo israeliano, delle continue provocazioni di estremisti ebrei, che grazie a Netanyahu hanno una voce autorevole in sede di governo, e le presunte minacce all’integrità della Spianata delle Moschee, luogo sacro dell’Islam e, al contempo, simbolo di una sovranità rivendicata. Inoltre, l’attacco ha avuto il fine di sabotare il tentativo di normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, portato avanti dagli americani in risposta al tentativo cinese di creare un asse tra sauditi e iraniani. Un’eventuale risposta israeliana che comporti l’invasione di Gaza e l’uccisione di centinaia di palestinesi, potrebbe palesemente raffreddare la volontà di Mohammed Bin Salman di portare avanti i negoziati.
L’implicazione politica dell’accaduto, comunque, sta anche nei numeri: nell’arco di un paio di giorni, il numero di vittime israeliane (più di 1200) ha superato quello della guerra del 1967 e di gran lunga quello della seconda Intifada.
L’opinione pubblica interna israeliana, come confermano ex politici e giornali, ritiene il governo di Netanyahu pienamente responsabile del disastro. Le divisioni interne hanno indebolito il Paese, distraendolo da una necessaria e permanente politica di sicurezza. Le piazze piene, le accuse del Likud ai vertici politici e militari di complottare contro il governo non hanno fatto altro che spaccare un fronte che avrebbe dovuto restare unito per respingere le minacce esterne. La politica di sicurezza di Israele non si è mai basata sull’attacco frontale bensì sulla prevenzione. Al contrario, come conferma Nitzan Horowitz, ex ministro della Salute israeliano, la radicalizzazione e la polarizzazione politica, con punte di intolleranza e odio – riversatosi sui palestinesi nelle colonie – non ha fatto altro che approfondire un sentimento di sfiducia generalizzato, il quale ha prodotto come risultato un aumento delle diserzioni nell’esercito e nelle forze di polizia. Infine, la politica di Netanyahu ha esplicitamente rafforzare Hamas, con il fine di approfondire la tensione tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah, che è comunque principale interlocutore israeliano dagli Accordi di Oslo. Un autogol clamoroso.
Il fallimento dell’esercito israeliano, dei servizi e la guerra psicologica
Chiarite le implicazioni politiche che hanno portato al successo di Hamas, bisognerebbe concentrarsi su quelle militari e strategiche, in quanto ci si trova di fronte al più grande fallimento dei servizi israeliani dal 1973. La portata del disastro è esemplificata dalle parole dell’ex ministro Horowitz: «La seconda cosa è che un attacco come quello perpetrato da Hamas a partire da sabato è stato preparato per molti mesi: bisogna rifornirsi di armi, addestrare i soldati, elaborare piani, provare l’operazione… Il fatto che la nostra intelligence non sia stata in grado di accorgersene mi lascia con molte domande».
Infatti, le domande in merito sarebbero molte, a partire dall’incredibile fatto che i servizi israeliani abbiano sottovalutato la capacità di Hamas di compiere un attacco di questa portata. Molto probabilmente, sia il governo che i militari credevano che la pesante sconfitta subita dal gruppo terroristico nel 2021 lo avrebbe dissuaso da compiere ulteriori attacchi in grande stile. Cosa confermata dai continui spostamenti di battaglioni da Gaza alla Cisgiordania.
Le componenti dell’intelligence israeliana finte sotto accusa sono, comunque due: lo Shin Bet, il servizio di intelligence interno, responsabile del controspionaggio e dell’anti-terrorismo e l’Aman, la direzione dell’intelligence militare. Alla vigilia dell’attacco Ronen Bar e Aharon Haliva, rispettivamente il direttore dello Shin Bet e il generale al comando dell’Aman, hanno partecipato alle consultazioni sulle informazioni trasmesse dai servizi di intelligence su attività insolite compiute al confine con Gaza. Informazioni che suggerivano come i terroristi si stessero preparando ad un attacco. I due servizi hanno concordato che non fosse necessario disporre più soldati attorno al confine ma soltanto due squadre, una dello Shin Bet e una dell’Aman, specializzata nell’anti-terrorismo.
La facilità con cui i miliziani sono penetrati in profondità nel territorio israeliano, eludendo i sistemi di sorveglianza, superando le mura e neutralizzando le forze militari presenti è destinata a lasciare una cicatrice profonda, dal quale Israele farà molta fatica a riprendersi. L’umiliazione si farebbe più cocente se si analizzasse la pessima performance del fiore all’occhiello dell’industria bellica israeliana, ovvero il sistema d’arma mobile per la difesa antimissile, l’Iron Dome. Sviluppato dalla RAFAEL per operare in qualsiasi condizione climatica e dichiarato pienamente operativo nel 2010. Iron Dome è in grado di identificare razzi e colpi d’artiglieria da 150mm in un raggio compreso tra i 4 i 70 km. Il sistema sfrutta algoritmi complessi per calcolare traiettorie e la pericolosità dei missili nemici, elaborando una risposta in pochi secondi attraverso gli intercettori TAMIR di ciascuna batteria, verso il bersaglio designato. Sembrerebbe che di fronte a questo attacco, il sistema si sia sovraccaricato, in quanto il numero di razzi lanciati da Hamas era troppo elevato. Peraltro, questa volta i razzi lanciati erano diversi e più pesanti rispetto agli attacchi precedenti.
Oltre all’Iron Dome, ci si chiede come mai nemmeno gli scanner e i sensori di movimento abbiano funzionato a dovere durante questo attacco. C’è chi parla del supporto degli hacker russi o iraniani, durante questa operazione. Si tratta, però, soltanto di voci, le quali troveranno probabilmente conferma nelle prossime settimane.
Israele, inoltre, si trova a dover gestire una situazione molto delicata, cioè quella relativa agli ostaggi. Il continuo ammassamento di uomini al confine con Gaza, in preparazione di un’ampia, pericolosa ed emotiva operazione di terra potrebbe rappresentare più un problema che una soluzione, in quanto i 250 ostaggi tra le mani di Hamas rischierebbero di non vedere mai l’arrivo dei soldati israeliani. Per non parlare dei circa 100mila civili palestinesi ancora presenti nella zona delle operazioni.
L’emotività della reazione potrebbe sfuggire di mano, replicando un po’ quanto accaduto agli americani dopo l’11 settembre. Un fattore noto ad Hamas, il quale ha cominciato già a praticare operazioni di guerra psicologica. Lunedì 16 ottobre, Hamas ha diffuso un video che ritrae uno degli ostaggi, Mia Shem, una ventunenne franco-israeliana di Shoahm, i cui genitori hanno recentemente incontrato la ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna. Nel video, la giovane rapita mentre si trovava al festival di musica elettronica del Kibbutz di Reim, parla (o forse legge) un testo in cui dice di essere stata operata per tre ore, ricevendo cure e farmaci, e di voler tornare a casa. Le immagini hanno indugiato diversi minuti sulle medicazioni ricevute dalla ragazza. In particolare si nota una vistosa ferita sul braccio destro, una stecca sull’arto ferito e una benda poi inserita nel punto in cui sono state applicate le medicazioni.

Il video, assieme alle foto, alle notizie false e ad altri filmati diffusi dal potente network jihadista fanno parte di una ben congegnata operazione di guerra psicologica mirante a condizionare l’opinione pubblica israeliana circa l’opportunità di appoggiare le operazioni di terra e, al contrario, spingere governo e vertici militari ad intervenire. D’altronde il fine della guerra psicologica è quello di influenzare percezioni, emozioni, attitudini e comportamenti delle persone al fine di raggiungere obiettivi politici, militari e sociali. La guerra psicologica del sistema di comunicazione jihadista viene di solito condotta sfruttando il condizionamento mentale dato dalla paura, dato attraverso la diffusione dei video dei loro massacri e messaggi di testo per alimentare, infine, il proselitismo.

Il rischio di un allargamento del conflitto e il ruolo di Stati Uniti e Iran
La reazione emotiva di Israele, conseguenza anche del successo della guerra psicologica di Hamas, potrebbe produrre anche un allargamento del conflitto, secondo gli analisti più esperti. Gli attacchi di sabato 7 ottobre fanno chiaramente saltare la possibilità di una pacificazione regionale, mantenendo un altissimo livello di tensione e alzando l’asticella del coinvolgimento bellico degli attori regionali e andando oltre. I segnali sono allarmanti. Dalla storica intesa tra Iran e Russia, che potrebbe portare all’allargamento dell’arco di crisi fino alla Siria, alleata di Mosca, passando per il Libano e l’intervento americano.
Non si deve dimenticare nemmeno che il mondo, in questo momento, si presenta più spaccato che mai. Con la guerra in Ucraina che impegna Europa e Stati Uniti in un confronto con la Russia, l’apertura di un altro fronte in Medio Oriente rischierebbe di rompere il fragilissimo equilibrio esistente tra governi ed opinioni pubbliche occidentali. Inoltre, la stanchezza imperiale degli americani potrebbe andare incontro ad un ulteriore incremento, causato dall’obbligo di sostenere gli alleati israeliani nella loro opera di “pulizia” anti-terroristica nella striscia di Gaza. Di tale stanchezza ne beneficerebbe sicuramente Mosca, in quanto una distrazione americana arrecherebbe loro soltanto benefici sul fronte ucraino. Inoltre, non bisogna dimenticare la portata propagandistica di quanto sta accadendo in Medio Oriente, con cinesi e russi impegnati a perorare la causa palestinese, attaccando europei e statunitensi “eccessivamente filo-sionisti”. Tale messaggio attecchisce e non poco nei confronti delle opinioni pubbliche occidentali, sempre più sfilacciate e sempre più “tifose”.
Tale narrazione andrebbe ad aggiungersi alla causa portata avanti da Mosca e Pechino in Africa, dove le ondate di proteste anti-coloniali nel Sahel sono sostenute proprio da Mosca e Pechino contro francesi e americani. Un ulteriore tassello di un puzzle globale che si rende sempre più complesso e intricato e che fa presagire cupi scenari futuri per la geopolitica occidentale.
Nei prossimi giorni i territori palestinesi saranno sicuramente presi di mira in ogni modo dalle forze israeliane, le quali verranno soprattutto trascinate dalla carica emotiva derivante dallo smacco subito. Gli americani hanno fatto intendere, attraverso il lungo e lento tour del Segretario di stato statunitense, Antony Blinken, di non concordare con le intenzioni di Tel Aviv, in quanto una grande operazione di terra avrebbe ripercussioni internazionali notevoli. In questi giorni il Segretario sta proprio cercando di “salvare il salvabile” dell’accordo con i sauditi. Un massacro dei civili palestinesi comprometterebbe tutto.
Questa interpretazione delle intenzioni di Washington troverebbe conferma nel viaggio di Joe Biden in Israele, previsto per il 18 ottobre, in quanto il suo obiettivo sarebbe quello di rilanciare un dialogo con i vicini di Tel Aviv per un corridoio umanitario – il Presidente, infatti, incontrerà il leader egiziano Al Sisi – e dissuadere Netanyahu dall’occupare Gaza.
Il timore degli americani è quello di un allargamento del conflitto ad Iran e Libano. Per ora Teheran osserva, seppur in molti ritengono che sia sua la “mano logistica” dietro agli attacchi di Hamas, e minaccia un intervento nel caso in cui Israele decidesse di occupare Gaza. Inoltre gli attacchi di Israele in direzione del Libano, dove ha sede Hezbollah, aumentano la percezione che, prima o poi, il conflitto possa allargarsi. Una soluzione che agli americani non piace per nulla, in quanto Washington ritiene che nel caso Tel Aviv sia chiamata a sostenere un attacco su più fronti, farebbe. molta fatica a respingerlo. E in quel caso gli americani non potrebbero fare altro che sostenere il suo alleato, distogliendo l’attenzione di Washington dai fronti più caldi, come l’Europa e l’Estremo Oriente.
I fragili equilibri regionali mediorientali sono il frutto della “distrazione” delle grandi potenze, su tutte Russia e Stati Uniti, e del disordine globale conseguente alla crisi della leadership americana e alla guerra in Ucraina. Il solo fatto per Washington di non poter sostenere un impegno su più fronti certifica la teoria secondo cui sia in atto quella che viene soprannominata “stanchezza imperiale“. Se, per ora, un intervento iraniano è da escludere, di sicuro un’invasione di Gaza comporterà una reazione del mondo arabo filo-palestinese ai confini con Israele, ad esempio un’intensificazione delle incursioni dal Libano e l’aumento della presenza delle milizie iraniane al confine siriano. Inoltre, non bisognerebbe dimenticare l’elemento religioso, tornato ad aleggiare sotto forma di terrorismo islamico in Europa. Quella in atto in Medio Oriente potrebbe intensificare la reazione a catena, il cui primo tassello è già caduto quando le truppe russe hanno valicato il confine ucraino.
Redazione Radici
 

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