Del 16 Ottobre 2023 alle ore 21:03Intorno ai primi del ‘900 si determina una rivoluzione espressiva. Si costituiscono, infatti,  i movimenti culturali d’avanguardia, ma è anche il secolo della crisi: la crisi della ragione (Nietzsche), quella dell’angoscia (Freud), quella della conoscenza verso l’esterno (Positivismo), che cede il posto alla conoscenza interiore, tesa a cogliere l’essenza spirituale del tutto (Bergson). Il ‘900 è infine il secolo dell’inquietudine, che si ritrova nelle opere di Proust, Joyce, Svevo, Pirandello…
Istanze ben rappresentate in “Il mercante di Venezia”, andato in scena al teatro Olimpico di Roma, con la regia di Loredana Scaramella, del Gigi Proietti Globe Theatre. Scritto da William Shakespeare – secondo alcuni nel 1594, secondo altri nella seconda metà del 1596 – nella sua piacevole e ben congegnata versione la Scaramella sposta l’ambientazione “negli anni tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento”, appunto, “che furono come il periodo elisabettiano anni euforici e contraddittori”. Il Novecento, infatti, sarà sinonimo di  preannunciata “degenerazione”, un secolo fatalmente condannato dalla demagogia e da una prevalente cultura del piacere e della morte.
La vicenda ruota intorno a uno scellerato contratto – quello stipulato tra Antonio, mercante veneziano in cerca di denaro per aiutare l’amico Bassanio a corteggiare degnamente la ricca Porzia – e l’usuraio ebreo Shylock, e alla sua macabra penale, che pretende come obbligazione, se la somma non verrà pagata, il diritto di prendere una libbra di carne dal corpo di Antonio.
In questa logica il tema centrale è quello del denaro, del rapporto amore-denaro nelle sue varianti onore-denaro, denaro-libertà, denaro-ricatto e così via. E qui veniamo a Shylock, rappresentato da un solido Carlo Rangone, che scava in profondità nella coscienza del personaggio.
“Il mercante”, concepito negli ultimi anni del XVI secolo, è ambientato in una Venezia cosmopolita dello stesso periodo, offuscata dalle ombre della discriminazione etnica e religiosa, dove gli ebrei sono costretti a risiedere nell’area del ghetto, in cui è presente una fonderia, sorvegliata da guardie cristiane. “Ghetto” viene dalla parola  getto perché vi si “gettava” il metallo fuso. Nella pronuncia degli ebrei askenaziti di origine tedesca, che non conoscono le vocali dolci, “getto” diventa “ghetto”.
Nella città lagunare, così come nell’Inghilterra di Shakespeare, agli appartenenti al popolo ebraico erano interdette molte occasioni lavorative, così come l’accesso alle grandi corporazioni. Shylock, in quanto ebreo,  è uno straniero relegato in un ambito ben definito e subisce affronti e sopporta insulti da parte dei cristiani e, soprattutto, da Antonio (un Augusto Fornari autorevole ma delicato, sensibile ma non mellifluo, tenerissimo nel dolore).
Nell’impeccabile adesione filologica al testo da parte della Scaramella, emerge chiaramente che i difetti e le colpe dell’usuraio Shylock non sono rappresentativi di una razza, bensì di un uomo solo, discriminato e perseguitato. Ne è prova un passaggio che scardina il pregiudizio “(…) un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano?”.  La contraddizione quindi che la Scaramella propone è quello tra un cristianesimo dubbioso, scettico, esistenziale, impersonato da Antonio, che a volte però diventa astuto e ironico, molto borghese e laicizzato, e un ebraismo fanatico, integralistico, vendicativo, quello di Shylock, che sarà costretto a rinunciare al proprio credo e alla propria cultura: un conflitto fra civiltà differenti, di stupefacente attualità.
Accanto a questo tema, se ne innestano altri. Il tema dell’economia e della legge, dell’amicizia e il tema delle libertà femminili, la valorizzazione del ruolo della donna, che qui sono donne forti, vincenti e molto intelligenti. Nerissa (una brillante e convincente Loredana Piedimonte) e Porzia. Sorretta dall’interpretazione autentica, passionale di Sara Putignano, Porzia si sgancia dall’insidia di trascorrere la sua vita tra due morse, passare cioè dalla casa del padre a quella del marito senza soluzione di continuità, e in ciò si manifesta donna decisa, autonoma e fiera.
Un applauso a tutta scena  al Tubal di Roberto Mantovani, che usa la voce e le gradazioni di suono come un jazzista tonale: a ogni parola un registro diverso, in una sequenza armonica di accordi. E una standing ovation da stadio al resto della compagnia,  che agisce in un afflato corale sorprendente se si pensa che lo spettacolo è stato montato, provato e varato in meno di una settimana.
La messinscena ha una struttura serrata, concentrata, in sc-ontri e inc-ontri che caratterizzano con estrema lucidità le diverse posizioni (umane, intellettuali e psicologiche) dei personaggi.
La commedia è concepita come uno spettacolo davvero gradevole cui concorrono parola, canto, musica, danza, gioco di luci, movimenti calibratissimi di palco, in una ricerca del “meraviglioso” e in una collaborazione imprevedibile con il pubblico, che ha molto apprezzato e molto applaudito. Un “Mercante”, insomma, in cui la parola conta, ma quanto gli altri elementi dello spettacolo.
Ciò che infine resta, sulle note struggenti di Kurt Weill, tra timide fiammelle di lanterne, volti inquieti, passi smarriti, è l’epilogo delle verità conosciute, nel passaggio dal noto verso l’ignoto, profezia della fine che verrà.
Loredana Scaramella, regista de “Il mercante di Venezia”L’articolo “Il mercante di Venezia”, regia di Loredana Scaramella: l’eterno conflitto tra due differenti civiltà è già apparso su Il Corriere Nazionale.

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