Del 1 Ottobre 2023 alle ore 11:25L’Opinione di Roberto Chiavarini
Mio padre, mi raccontava spesso di un suo amico, un tale Chirurgo pediatrico di riconosciuta fama, che svolgeva il suo lavoro di medico ospedaliero negli anni ’60, ma non so esattamente in quale struttura sanitaria e in quale luogo, il quale, non aveva né una moglie e neppure dei figli, insomma era uno dei primordiali modelli sociali, riconducibili, per sua libera scelta, alla categoria dei cosiddetti “Single”.
Quando quel chirurgo usciva dalla sala operatoria, subito dopo un intervento di chirurgia ricostruttiva, magari praticata su dei ragazzini investiti da un’auto e/o da una fiammata improvvisa e/o da un incidente casuale qualsiasi, le madri di quelle vittime, gli si prostravano ai piedi chiedendo di salvare il loro figliolo e lui chiedeva al suo seguito di infermieri, che gli liberassero il corridoio dalla gente che gli si accalcava intorno, infastidito da co’ tanta supplica.
E lui veniva descritto, da chi lo conosceva bene, come un Cristo in terra, soprattutto quando, terminato l’intervento chirurgico di routine, usciva dalla Sala Operatoria, spingendo con i suoi gomiti le porte a molla, (quelle tecnicamente in uso nei presidi sanitari degli anni sessanta, meglio definite “Porte Vai e Vieni” o, meglio ancora, come le “Ante del Vecchio West”), che precedevano la grande porta di ingresso alla sala dove avvenivano gli interventi chirurgici.
Probabilmente, quel Medico, utilizzava i gomiti, per non contaminare le superfici di quell’accesso, probabilmente a causa delle mani inguantate e insanguinate che alzava verso il Cielo (che, ai più, appariva come una performance da messa in scena, per dare l’impressione alla gente che lo guardava, come se, egli, fosse in stretto contatto con nostro Signore), e quella mimica la esibiva ogni qualvolta impattava con il suo pubblico in lacrime, che era li fuori nei corridoi ad aspettarlo come un Messia calato dal cielo (pubblico composto da genitori e da parenti del paziente di turno appena operato, ansiosi com’erano di ricevere rassicurazioni).
Addirittura qualche suo conoscente, in quelle circostanze lo avrebbe visto pure levitare.
Dicevamo che, quel chirurgo, non aveva nessuno al mondo, quindi si sentiva immune dalla sofferenza manifestata, costantemente, dalle Madri dei suoi piccoli, quanto occasionali, pazienti.
Anzi, no. Adesso ricordo quando mio padre, in una particolare circostanza, mi disse che, il suo amico medico, aveva un nipote al quale era legato da profondo affetto, allora quindicenne, giovane, alto, bello, biondo e con gli occhi azzurri. Uno e perfetto.
Insomma, la mano del Fato non si era risparmiata nell’ impastare quel giovine.
Bene, un giorno, quel ragazzone, fu vittima di un brutto incidente stradale in moto e, soccorso immediatamente da una ambulanza, chiamata da qualche testimone dell’incidente, giunse un fin di vita al pronto soccorso.
E pure lo zio (il chirurgo amico di mio padre) avvisato in tempo, raggiunse l’Ospedale con un manifestato affanno e si addentrò fino alle porte della sala operatoria (non so più di quale città e/o paese), dove fu bloccato tempestivamente dagli infermieri, poiché, il Primario, stava per iniziare l’operazione chirurgica su quel giovine e sfortunato paziente.
L’amico di mio padre, così toccato in prima persona da un così crudele destino, chiese di poter parlare col suo collega, prima che iniziasse quell’intervento chirurgico e lo fece gridando e piangendo.
Uno degli infermieri, mosso da pietà cristiana, chiamò il Primario già pronto per l’avvio dei macchinari di supporto esterno, necessari per il controllo dei parametri vitali della vittima, il quale, uscì prontamente dalla sala operatoria, innanzitutto per il doveroso e dovuto rispetto verso il suo collega, che pur non conosceva ma, anche e soprattutto, per riferirgli chiaramente le condizioni estreme in cui versava il suo giovane nipote.
E, li, accadde ciò che nessuno degli astanti si sarebbe mai immaginato.
Il chirurgo amico di mio padre, si inginocchiò davanti al suo collega Primario, gli prese le mani già inguantate e scoppiò in un pianto disperato, quasi isterico, lo supplicò di salvare la giovane vita di suo nipote (come facevano d’altronde, i suoi pazienti con lui e che lui non tollerava quando era nel pieno del suo distaccato equilibrio mentale), l’unica persona al mondo alla quale era affettivamente legato (e, magari, erede assoluto delle sue fortune professionali).
Ebbene, non so se quel ragazzo fu mai salvato, non so neppure se questa storia sia vera o romanzata ad hoc dagli amici del chirurgo, per descriverne la sua pervicace indifferenza sulla altrui sofferenza, una storia, magari, confezionata e imbastita con la stessa maestria e abilità, di come fa il sarto con l’abito cucito indosso al suo migliore cliente.
Certo è che, tra la storia e la leggenda, una metafora la si può pur tirar fuori da quanto vi ho narrato, alla luce degli storici eventi sanitari degli ultimi anni.
La lettura di queste poche righe, ricreerà senz’altro dubbi nei miei lettori, anche in chi ha certezze da vendere ma, al tempo stesso, saranno stimolati alla riflessione, attraverso la riformulazione del loro libero pensiero, poiché, questa narrazione, ripropone il confronto tra il trascendente e l’immanente sempre presenti nelle cose di tutti i giorni, spesso dominati da una squallida mercificazione ideologica e/o molte volte, e in alcuni casi (per fortuna pochi) dall’arroganza di chi gestisce il potere terreno (in tutti i settori della vita sociale, naturalmente).
Ricordo a tutti, ma proprio a tutti che, Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, attraverso i 30 articoli che la composero.
L’art. 3 di quella dichiarazione, che ci interessa da vicino, recita testualmente:
“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.
Più precisamente l’Articolo 3, vale per tutti coloro i quali hanno il “Dovere” di tutelare la vita dei cittadini e la loro “Dignità”, poiché, esso, è l’articolo che, prima ancora di figurare nell’elenco dei diritti fondamentali della persona, è un valore assoluto, che è il presupposto della legalità e che restituisce la certezza di come l’amore profuso per il bene del prossimo, esiste e che non ha bisogno di prove significative, perché il suo fondamento valica le frontiere del tempo, proprio come l’amore di Dio per l’Umanità.
E già, ecco quale è la morale rievocata del mio racconto: la dignità che ogni professionista di ogni settore sociale (di tutti i settori sociali), deve rispettare per la tutela dei propri assistiti.
Ciò, in considerazione anche del fatto che, “giorno verrà” per ognuno di noi.
È solo una questione di tempo, perché il Fato, è li, sulla soglia della porta dei cieli in attesa (quello si, in vigile attesa) che, prima o poi, ognuno di noi giunga al giudizio finale.
Anche nel caso in cui l’uomo (in questo caso, è meglio dire la Scienza), dovesse prolungare la vita dei singoli individui (non per tutti, magari, ma quelli privilegiati, si) per 200 e/o 300 anni e più.
Traggo da alcuni versi scritti da mia Madre, una frase esemplificativa e che utilizzo a supporto dell’argomento oggi trattato: “…mio Dio, mio Dio, son piccola cosa da nulla ma lasciami in vita…”.
Affidare la propria anima a Dio, anche per chi non creda in lui, secondo il mio parere, resta la cosa più saggia da fare, poiché solo Dio ha il potere di vita e di morte sull’uomo, secondo il “Mistero” del suo progetto (e l’uomo ne è il suo strumento e non viceversa), che fu avviato in quel luogo inaccessibile, dove risiede il nulla più assoluto, che è all’origine di tutti i Tempi.
Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti, è puramente casuale.
Ci mancherebbe altro.
Per carità.
Buona vita a tutti.
ROBERTO CHIAVARINI Opinionista di Arte e PoliticaL’articolo Il Semidio è già apparso su Corriere di Puglia e Lucania.