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Editoriale di Daniela Piesco Co-Direttore Radici 
Il divieto di uso del tabacco negli Istituti di pena è una pratica legislativa che si sta diffondendo nel mondo alla luce del fatto che questa condizione migliora la qualità dell’ambiente carcerario e della vita di chi in quell’ambiente lavora o sconta una pena. Considerando che il tabagismo è una dipendenza patologica e che in generale il tasso di fumatori tra i detenuti è molto alto, occorre considerare che spesso il rispetto del divieto genera problematiche da affrontare con un approccio diagnostico-terapeutico mirato unitamente ad un chiaro rispetto delle regole.
Tuttavia esistono ancora dei punti controversi. Le carceri ad esempio,sono non solo luoghi di lavoro ma anche vere e proprie abitazioni per
persone costrette a viverci per un
più o meno lungo periodo di tempo. Tali istituti rappresentano quindi una sorta di “frontiera” ove tali leggi sono applicate talora con riserve e difficoltà, poiché si prestano a dei comprensibili contenziosi tra fumatori intenzionati a continuare ed i non fumatori, gli ex-fumatori o i fumatori intenzionati a
smettere di usare il tabacco. Però, da una parte è facilmente intuibile come la materia del “divieto” in luoghi così particolari e carichi di connotati specifici rispetto agli altri dia adito a diversi tipi di lettura e di riflessione, non bisogna dimenticare che essa riguarda non
solo i detenuti e lo staff penitenziario ma anche il concetto di salute pubblica, considerando che non si tratta di una popolazione da ascrivere ad una categoria a sé stante, ma ad un contesto comunitario.
La sentenza 2407/2023
Dopo una battaglia durata più di dieci anni il Tribunale di Lecce, prima sezione civile, con la sentenza 2407/2023 pubblicata il 5 settembre 2023, ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire i familiari di un assistente capo di polizia penitenziaria presso la casa circondariale leccese “N.C. Borgo San Nicola” deceduto nel 2011 per carcinoma polmonare, la neoplasia per eccellenza causata dal fumo, ma né lui né i suoi familiari avevano mai fumato.
L’agente tuttavia era stato esposto per lunghi decenni alle cattive abitudini altrui, al fumo passivo che si addensava (anche in barba ai divieti intervenuti nel tempo) nelle sezioni detentive. Per almeno sei ore al giorno era costretto a subire il fumo dei detenuti (,il corridoio davanti alle celle era una “camera a gas”, come ha confermato durante il dibattimento un testimone )ma anche quello di colleghi che fumavano tranquillamente in ufficio, mentre l’amministrazione penitenziaria non è riuscita a garantire adeguate misure di prevenzione, e a far rispettare il divieto di fumare, complice anche l’infelice dislocazione delle celle e l’esposizione dei locali: aveva imposto sanzioni ai trasgressori solo dopo il decesso del dipendente. Che era mancato a soli a quarantaquattro anni, lasciando moglie e tre figli.
E quindi è stata inequivocabilmente riconosciuta la responsabilità del Ministero della Giustizia, in qualità di datore di lavoro, per non aver tutelato adeguatamente i poliziotti penitenziari dai danni derivanti dal fumo passivo. Il codice civile infatti, “impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”. Pertanto, spetta al datore risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali ai familiari.
Ora il Ministero della Giustizia è stato condannato a risarcire i familiari con un milione di euro.
Perché sono inutili i divieti parziali?
Considerata l’alta percentuale di fumatori tra i detenuti, applicare dei divieti parziali (ad esempio fumare all’aperto) comporta problemi di gestione I soggetti possono avere con sé le sigarette, usandole solo in luoghi e tempi molto limitati e solo quando il clima permette di fruire degli spazi aperti. Esse sono persone non avviate ad un vero e proprio percorso di disassuefazione e non hanno neanche un divieto totale che le allontana significativamente dalla sigaretta. È evidente come durante il resto della giornata o quando il clima è inclemente, soffriranno di sintomi o segni astinenziali psicofisici che renderanno
più difficile l’osservanza del divieto
In diverse prigioni, inoltre, chi dovrebbe vigilare non applica le dovute sanzioni sui trasgressori
Ai divieti subentra Il contrabbando di tabacco
Parliamoci chiaro ai divieti di fumo subentra Il contrabbando di tabacco ed il mercato nero che sono il problema principale delle prigioni : fiorisce rapidamente tra i fumatori astinenti
e determina la creazione di obblighi, favori, gerarchie e poteri, indebitamenti di tipo economico. I detenuti dispongono infatti di pochi soldi per l’acquisto di beni allo spaccio del carcere, quindi il reperimento e l’acquisto delle sigarette spacciate da pari o membri del-
lo staff “compiacenti” comporta l’esposizione a rischi e l’esborso di cifre notevolmente superiori a quelle che si spenderebbero normalmente per un pacchetto. Il tabacco diventa una merce di scambio preziosissima e costosissima non solo in termini strettamente economici.
Facciamo chiarezza
Fumare in ufficio o comunque nei luoghi in cui è vietato non è mai reato; lo può diventare, però, non adottare i dovuti provvedimenti nel caso in cui il divieto venga violato.
Se è stato denunciato al responsabile che qualcuno fuma in ufficio e questi non ha fatto nulla, questo potrebbe essere denunciato a sua volta per omissione o rifiuto di atti d’ufficio. Secondo il codice penale, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Quindi, il responsabile o il dirigente che non fa rispettare il divieto di fumo negli uffici rischia un processo penale se non adempie al suo compito. Tuttavia, il reato appena menzionato si applica solamente a chi ricopra la carica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, qualifica che difficilmente potrebbe rivestire il datore di lavoro privato. In questa ipotesi, cioè se il divieto di fumo non viene rispettato in un ufficio privato, allora si potrebbe fare causa al datore o al responsabile che non fa rispettare il precetto, potendo giungere a chiedere il risarcimento del danno derivante da fumo passivo.
Conclusioni
Il divieto di fumo nelle carceri, anche se non scevro da miglioramenti apportabili a seconda delle situazioni, contiene in sé numerosi e significativi elementi di positività sulla salute di coloro che vivono il carcere e, potenzialmente, su quella pubblica. Alcuni Paesi come la Nuova Zelanda, il Canada e gli USA,tra i primi ad adottare tali politiche ed ove gli effetti del divieto sono stati indagati attraverso studi condotti nell’ultimo quindicennio, evidenziano come tale condizione sia più facilmente accettabile e praticabile tra i detenuti se essi sono supportati da programmi di disassuefazione gratuiti e sono coinvolti preventivamente nell’attuazione
e pianificazione del divieto, se le trasgressioni sono realmente punite, se il mercato nero è efficacemente contrastato, se il divieto di
fumo è totale e non parziale, investendo anche le pertinenze esterne al luogo di detenzione.
Appaiono cristallini i benefici sulla salute psicofisica, sulla qualità di vita, sulla qualità dell’aria e sulla condizione sociale ed economica dei detenuti e degli operatori degli Istituti Penitenziari siano significativamente superiori ai potenziali fattori negativi correlati ad un divieto che oggi più che mai appare di indispensabile applicabilità anche in un carcere.
pH Fernando Oliva

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