Del 30 Agosto 2023 alle ore 21:39Il recente caso dell’assoluzione in Cassazione del presidente Raffaele Lombardo fa tornare di attualità il tema della reintroduzione dell’autorizzazione a procedere a tutela della funzione politica svolta dai parlamentari de perlomeno dei vertici delle amministrazioni territoriali.
L’ex Presidente della Regione autonoma siciliana Raffaele Lombardo, leader del partito politico “Movimento per l’autonomia”, è stato assolto in via definitiva con una sentenza che la Corte di cassazione ha emesso il 28 agosto 2023 dalle accuse gravi per le quali era stato condannato nei precedenti gradi di giudizio: concorso esterno e di corruzione elettorale con l’aggravante di aver favorito la mafia.
Lombardo ha espresso al riguardo della sua vicenda grande amarezza, ricordando il danno enorme che l’inchiesta che lo colpì ed ha continuato a opprimerlo per più di dieci anni ha arrecato alla sua persona, alla funzione politica da lui svolta, ed anche alle riforme che erano già state messe in cantiere dalla giunta regionale da lui presieduta, che rimasero bloccate dopo il suo rinvio a giudizio dopo che il Gip di Palermo ne aveva disposto l’imputazione coatta nonostante la richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica.
Ciò che Lombardo ha sottolineato è che la sua imputazione fu preceduta, nel 2010, da una campagna mediatica aggressiva ai suoi danni, la quale “secondo uno schema collaudato ha preceduto il processo”. Egli ha anche ricordato che “in quella stagione molte riforme terminarono. Per me fu un danno incalcolabile e aggiungo irreparabile, per la mia reputazione, il mio onore, la mia famiglia, la mia iniziativa politica. Nel 2005 avevo fondato il Movimento per l’autonomia, la Sicilia è una Regione autonoma, grazie al suo Statuto speciale, che dal 2010 vive anche se la sua spinta propulsiva si è bloccata, con un grave danno per il mio popolo”.
Di fronte a vicende del genere, non certo infrequenti, ritorna di grande attualità il tema della reintroduzione nella carta costituzionale dell’istituto dell’autorizzazione nei confronti dei parlamentari, e perlomeno dei vertici delle amministrazioni territoriali: che renderebbe necessario che i pubblici ministeri, prima di svolgere attività di indagine di qualsiasi genere nei confronti degli esponenti politici votati dal popolo, chiedano e ottengano l’autorizzazione da parte del corpo di appartenenza, la camera dei deputati, il Senato della repubblica, il Consiglio regionale etc., a seconda dei casi.
Chi si scrive si è battuta per anni, all’interno della magistratura, in favore di questa riforma o meglio di questo ritorno al recente passato, giacchè l’autorizzazione a procedere era stata prevista sin dalla nascita della Repubblica Italiana, prevista dall’art. 68 della Costituzione nel suo testo precedente alla riforma introdotta sull’onda giustizialista che accompagnò la stagione c.d. di Mani Pulite nei primi anni ’90.
Interventi pubblici, lettere e articoli non sono però serviti per anni assolutamente a niente, anche perché in ambiente giudiziario quei pochi che potevano essere d’accordo avevano una palese paura di mettersi contro la maggioranza, mentre la politica temeva fortemente di esporsi davanti all’opinione pubblica che avrebbe gridato verosimilmente al “complotto dei politici mafiosi, o ladri, o massoni”, o ad un “progetto per fornire un lasciapassare agli onorevoli ladroni”.
Sul tema della reintroduzione dell’autorizzazione a procedere avevo scritto nel lontano 2013 un articolo su Il Fatto Quotidiano, con la presentazione del dott. Bruno Tinti, un eccellente magistrato che all’epoca era da poco andato in pensione; tenore analogo aveva una più lunga prolusione pubblicata anni prima su La Magistratura, la rivista ufficiale della Associazione Nazionale Magistrati.
L’istituto dell’autorizzazione a procedere, già previsto dallo Statuto Albertino, venne riproposto con l’art. 68 della Costituzione repubblicana agli albori della nostra Repubblica italiana, quale soluzione di compromesso e scelta volta a garantire l’equilibrio tra il potere politico e il potere giudiziario.
Dobbiamo chiederci perché, dopo più di un secolo di vigore dell’istituto, soltanto nel 1993 il legislatore decise per la sua soppressione? Questa è una cosa difficile da comprendere, anche perché proprio l’anno 1993 e l’intera XI^ legislatura meritano di essere ricordati per il gran numero di autorizzazioni a procedere che venne concesso dalle Camere nei confronti anche di parlamentari “eccellenti”.
L’abolizione dell’autorizzazione a procedere appare dunque come una sorta di superfetazione, innalzata sull’onda delle istanze populistiche e giustizialisti che dell’epoca, come uno stanzino in più costruito sul terrazzino di un palazzo storico, che ne turba l’armonia architettonica e che verosimilmente sarebbe saggio abbattere.
Perché dunque soltanto nell’ottobre 1993 le Camere, con una maggioranza schiacciante, decisero la soppressione dell’istituto? Forse perché quella soluzione di compromesso stava cominciando a funzionare bene, garantendo un equilibrio fra il potere politico-legislativo e quello giudiziario, e l’istituto, grazie anche alla nuova regola del voto palese e sull’onda dello sdegno popolare, stava finalmente costringendo gli eletti dal popolo ad assumersi una responsabilità riguardo alle indagini ed ai processi contro i colleghi parlamentari; così da esporsi al giudizio degli elettori in caso di diniego di autorizzazione, ed al contrario, in caso di voto favorevole, da non poter più protestare “contro la facilità e quasi il compiacimento onde il P.M. sollevava contro i deputati le sue querele” come scriveva l’avvocato S. Barzilai nel 1887?
La storia recente del nostro paese andrà ristudiata con attenzione, per capire bene i moventi profondi di tante iniziative. Sta di fatto che, negli ultimi anni, moltissime vicende giudiziarie penali a carico di personalità politiche hanno finito per concludersi, dopo lunghi periodi penosi costellati di squalificazioni delle persone e rimozioni di interi gruppi dallo scenario pubblico, con sentenze di assoluzione.
Ora, se entro certo limiti la definizione di un processo con l’assoluzione può rientrare nella fisiologia delle fasi del giudizio, quando i numeri degli “insuccessi” della pubblica accusa diventano troppo alti, e soprattutto quando la mannaia della giustizia colpisce comunque personalità politiche, sia pure con processi destinati alla fine a chiudersi in ultima istanza senza la conferma di una condanna, delle domande dobbiamo porcele con sempre maggiore urgenza.
Perché l’apertura di un procedimento, la celebrazione di un processo penale, se hanno effetti assai dannosi sui singoli, possono produrre valanghe devastanti sulla rappresentanza politica della nazione, spostando l’ago della bilancia da un partito a un altro, modificando i pesi e le alleanze e maggioranze.
Credo che siano maturati i tempi per porre rimedio allo squilibrio creato dal legislatore, dietro una spinta popolare forse manovrata da qualcuno, e reintrodurre quella autorizzazione a procedere che i saggi padri costituenti avevano approvato per preservare il principio generale illuministico della tripartizione dei poteri e prevenire lo strasbordare dell’uno o dell’altro.
E’ necessaria una legge di modifica costituzionale, ovviamente, perché si tratta di mettere mano di nuovo all’art. 68 della Costituzione, ma forse oggi stiamo cominciando a capire che in Italia non esiste una parte buona e una parte cattiva, i politici non sono cattivi per definizione così come i magistrati buoni non sono per definizione. Gli uni devono poter limitare e controllare gli altri, perché l’Italia possa crescere e andare avanti in buona salute.
L’articolo La vicenda di Raffaele Lombardo porta a riflettere sull’autorizzazione a procedere è già apparso su Il Corriere Nazionale.