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Del 27 Luglio 2023 alle ore 22:52di Rosaria Impenna
L’Ihram è un abito bianco, una sorta di telo composto da due pezzi di stoffa nuovi, privi di cuciture, indossato dagli uomini che si recano per la prima volta a La Mecca o Medina, le due città sacre dell’Islam. L’Ihram va indossato come unico capo, colui che ne è avvolto deve essere coperto soltanto di questo telo che fascia principalmente la parte centrale del corpo, ne restano scoperti in modo visibile braccia, gambe e non di rado il petto. Prima di intraprendere il pellegrinaggio, quindi di indossare l’Ihram, vanno compiuti precisi e tassativi rituali, tra cui abluzioni con annessa “igienizzazione” corporale, determinate preghiere e conseguita una condotta tendenzialmente morigerata. Questi preparativi, fondati su attente regole, rappresentano la “sacralizzazione” del pellegrinaggio, inteso come una consacrazione cerimoniale che permette a chi lo compie di giungere a uno stato di purezza in vista dell’abbraccio con il divino, proprio laddove risiede la sua massima potenza.
Il più delle volte il cittadino europeo s’imbatte nella vista di individui così vestiti, trovandosi in aeroporto, magari in attesa della partenza per l’Arabia Saudita, esattamente per le città più vicine ai due luoghi sacri, quali Jeddah o Riyad. Colui che intende compiere il pellegrinaggio deve infatti indossare l’Ihram prima di entrare nel sacro suolo dell’islam e se proviene da una terra diversa, quindi profana, l’ultimo avamposto “sconsacrato” e utile prima di accedere al percorso del pellegrinaggio resta quello dell’aeroporto. Può capitare infatti che nell’attesa del volo per le due città indicate, sia possibile individuare folte schiere di uomini seminudi, avvolti di teli bianchi. La vista di ciò, inusuale quanto straordinaria, soprattutto osservandola per la prima volta, non può che indurre a riflessioni, perplessità e analisi che a partire dall’aeroporto di Malpensa hanno accompagnato il mio viaggio in Arabia Saudita nei riguardi dei precetti religiosi attentamente osservati e compiuti da coloro che seguono questa religione.
Viaggiare nei paesi islamici pone l’osservatore occidentale in una posizione sicuramente privilegiata per capire le complesse sfaccettature che accompagnano le dinamiche comportamentali inerenti il “sacro”. In Arabia Saudita, tutto questo è ancora più potente. Le manifestazioni ritualistiche compiute dalla quasi totalità della popolazione, qui raggiungono forme di intensità diverse, maggiori. Tutto questo, almeno in apparenza, stride con la patina di modernità che a macchia d’olio si sta diffondendo un po’ ovunque nel Paese, attraverso strabilianti grattacieli o altri avveniristici edifici quali stazioni ferroviarie, teatri lirici, aeroporti e non di rado moschee. Visitando il regno Saudita percorrendo le più rinomate regioni e località sorge spontanea l’idea che gli uomini islamici siano i soli a “comunicare” con il proprio dio. Questa convinzione si è rafforzata profondamente in me, osservando i comportamenti ritualistici conseguiti in grandissima parte soltanto dalla popolazione maschile. L’onnipotente è venerato attraverso gesti semplici, puerili, ma potentissimi che in forma assai esplicita comunicano sempre l’ossessiva sottomissione concreta quanto simbolica alla sacralità del Trascendente. La cura del corpo ad esempio, così meticolosa nella pulizia ritualistica, quanto nell’abbigliamento previsto per determinate cerimonie è pressoché assente nella vita quotidiana, quella maggiormente lontana dal rito, perciò profana. In quest’ultima infatti, prevale una certa trasandatezza e sciatteria, insomma una trascuratezza dei canoni estetici, specialmente tra la popolazione maschile. Eppure, non è vietato indossare capi occidentali e talvolta capita di vedere uomini con abiti firmati da noti sarti. Le donne, viceversa, per quanto possano affrancarsi dai tipici, tradizionali drappi, quasi mai possono liberarsi del velo. Ma quest’ultimo non predispone la figura femminile a specifici rituali dato che fa parte del suo abbigliamento abituale, in modo costante, appena le mura domestiche. Ciò sta a indicare che il rapporto esclusivo, prioritario con il proprio dio, praticato dagli uomini attraverso la prescrizione di precise formalità e apparati ritualistici, poiché è assente tra le donne, cancella di conseguenza la possibilità di un rapporto fondato sulla reciprocità tra i due sessi. Tale aspetto naturalmente, danneggia innanzitutto le donne. Esse, come vivessero in un mondo a parte, di esclusione, non “parlano” con il dio, di conseguenza con il maschio ad esso sottoposto, nella “immaginaria” scala gerarchica. Non partecipano infatti alla comunità dei fedeli che attraverso i rituali, offrono parte di sé, come forma di “sacrificio” in vista di un premio futuro, a partire dallo scambio fondato sulla “parola”. Anzi, dalla maggior parte dei riti le donne sono addirittura estromesse, quindi, se affrancate dalla precettistica della purificazione lo sono anche dalla “salvezza”. Rimanendo nell’ambito della contaminazione, vanno allora considerate pericolose, quindi da evitare. L’unica maniera per farle accettare dalla comunità è stata quella di depotenziarle, renderle innocue, privandole del pericolo che da sempre accompagna la figura femminile, il “numinoso”. Elemento che rappresenta un’oscura potenza di ordine irrazionale e ispira a sua volta un terrore riconducibile all’ambito soprannaturale, quindi “sacro”, perciò difficilissimo da controllare, addomesticare e assoggettare. L’eliminazione di tale potenza di cui le donne sono portatrici si è risolta nell’idea della sottrazione e tradotta nella meticolosa quanto ossessiva pratica della “chiusura”. Tale osservanza, nella parte alta del corpo femminile ha significato la cancellazione dell’elemento sensuale e pericoloso per eccellenza, rappresentato dai capelli, in quella bassa, nella chiusura della vagina. Il velo e l’infibulazione, fino all’atroce pratica della clitoridectomia, si rivelano strumenti efficacissimi per eliminare l’essenza della femminilità, la cui portata erotica e seduttiva, quindi pericolosa dato che può indurre al “fallimento”, va imbrigliata, eliminata ed occultata nella chiusura. La donna così trasformata incarna quella neutralità che la rende mansueta e inoffensiva dato che risulta intrisa di sottomissione alla volontà del maschio. Attraverso tali “connotati” essa può essere posta nell’ambito di un bene il cui valore consiste nell’essere posseduto solo in quanto manipolato. Analoga pertanto a un oggetto del desiderio di ordine “pornografico”, la figura femminile, poiché priva di qualsiasi istanza e rivendicazione di sé, può muovere i propri passi nella società dei maschi solo all’interno di percorsi già stabiliti e piegati a scelte obbligate, sempre dentro rigide, durissime regole. Sottrarvisi, significherebbe appartenere automaticamente alla parte maledetta, a quella dell’abiezione, della colpa, dell’emarginazione oltraggiosa e ferocemente punitiva. La coercizione della “chiusura” le offre invece il riscatto, un ruolo, il riconoscimento sociale, quell’accettazione di appartenenza al gruppo di cui è pressoché impossibile fare a meno.
In Arabia Saudita ad esempio, nei ristoranti come nei diversi luoghi pubblici, è frequente vedere le donne mangiare portandosi il cibo alla bocca ovviamente con la mano, mentre con l’altra alzano la parte del velo che copre integralmente il viso e lascia scoperti soltanto gli occhi. Ciò che maggiormente stupisce di questa osservanza è vederla diffusa sia nei borghi più isolati che nei lussuosi ristoranti di Riyad, Jeddah o altre città maggiormente “occidentalizzate”. Può capitare infatti che nel lussuoso ristorante del grattacielo più alto della capitale, il Kingdom Centre (m. 302), o in quello abbastanza vicino, chiamato Al Faisaliyah Center, o Star Dome (m. 267), per l’enorme sfera in prossimità della “vetta”, si noti tutto questo. Ossia, la vista di coppie in cui l’uomo, con impeccabili abiti occidentali mangi in modo disinvolto e “naturale”, mentre accanto a sé, la donna, per quanto abituata a tale costume, pare soffrire in quanto costretta a portarsi il cibo alla bocca alzando ogni volta il velo che gliela copre. Ma quel muro invalicabile, in fondo cos’altro sta a nascondere, a “chiudere” se non la “cavità” superiore, pericolosa tanto quanto quella in basso, rigorosamente cucita?
Qui risiede la ragione di rivendicare addirittura la libertà di indossare il velo e considerare legittima la scelta di dichiararsi a favore della infibulazione, da parte della donna islamica. Essa infatti come figura totalmente controllata e depotenziata solo così può assumere il significato concreto quanto simbolico di “soggetto” erotico, marchiato dagli intenti maschili che ne segnano in modo vistoso ed esemplare il valore del possesso, rendendola perciò oggetto. L’intervento sulla donna della mano maschile, considerata in modo capzioso il prolungamento della prescrizione divina, ne rappresenta così una sorta di aratura per l’attesa della fertilità e conseguente procreazione. Unica, esclusiva e forse apprezzata funzione ad essa concessa.
Rosaria Impenna
foto wikipediaL’articolo Ihram – la veste cerimoniale degli uomini che si recano per la prima volta a la Mecca o a Medina è già apparso su Il Corriere Nazionale.

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