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Del 23 Luglio 2023 alle ore 19:16La Procura di Roma ha impugnato la sentenza emessa dal Tribunale della capitale sulla c.d. “palpata breve” per erronea valutazione delle prove acquisite, nonché per travisamento dei fatti.
Il Tribunale di Roma ha di recente assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ossia per insussistenza del dolo, un collaboratore scolastico accusato di violenza sessuale per avere molestato una studentessa palpandola nelle parti intime per circa 5-10 secondi.
Perché si possa dichiarare che una certa condotta costituisce reato, infatti, in estrema sintesi occorre che emerga dal processo la prova non solo del comportamento materiale, in questo caso l’azione di palpare una ragazza nelle parti intime, ma anche della volontà di tenere quel comportamento (c.d. “dolo”).
Per fare un esempio, se un runner mentre sta correndo va a sbattere contro una ragazza, e per caso o per mero sbaglio le tocca le parti intime, non vi è dolo di violenza sessuale, quindi non c’è reato.
Nel caso in questione, invece, non è emerso che il collaboratore scolastico avesse “palpato” per errore, anzi dalla lettura sui media delle notizie, e degli stralci di sentenza, parrebbe che egli avesse proprio voluto palparla, assumendo però di non averlo fatto “per fini di libidine”, bensì per gioco, per scherzo.
Occorre quindi a questo punto verificare se il dolo, la volontà, richiesta dall’art. 609 bis del codice penale, che prevede appunto il reato di violenza sessuale, debba intendersi come dolo generico, ossia una semplice volontà di porre in essere una condotta, o come dolo specifico, ossia una volontà che, perché possa ritenersi integrato il reato, deve essere rivolta ad ottenere uno specifico fine, e in particolare nel caso concreto il fine di libidine. Il “fine di libidine” sussisterebbe quando chi palpa lo fa per trarne un piacere sessuale.
Occorre inoltre chiarire cosa è in diritto la “ioci causa”, ossia l’intenzione di fare una cosa per scherzo, per gioco, e valutare se nel caso del collaboratore scolastico essa si potrebbe fondatamente invocare in favore dell’imputato.
Innanzi tutto vediamo il testo della norma dell’art. 609 bis c.p., nella parte che ci interessa, ossia il primo comma:
“Chiunque, con violenza minaccia o abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.
E’ facile leggere e comprendere che la norma in questione non prevede alcun dolo specifico, il dolo è quindi generico.
Quanto alla interpretazione degli “atti sessuali”, da anni ormai la giurisprudenza anche della Corte di cassazione ha chiarito e ribadito che costituisce atto sessuale qualsiasi toccamento volontario di una zona erogena, fra le quali rientrano senza dubbio le parti intime “palpate” per pochi minuti nel caso che ci interessa.
Quanto alla durata della condotta, essa non può incidere sulla sussistenza o meno del reato, ma solo se del caso sulla sua gravità, per cui una palpata di pochi secondi dovrà essere sanzionata ovviamente con una pena inferiore rispetto ad altri atti più invasivi.
E tanto più che è ormai pacifico che la violenza può consistere anche e proprio nella repentinità della condotta, nel fatto che il toccamento sia imprevisto e veloce, tanto da non permettere alla vittima di comprendere la situazione e di difendersi.
Né è richiesto, conferma la giurisprudenza, alcuna particolare finalità del toccamento, non in particolare il “fine di libidine”, anche perché il vecchio art. 521 del Codice penale Rocco, che prevedeva come fattispecie meno grave della violenza sessuale con penetrazione gli “atti di libidine” che invece contenevano e comprendevano nel loro stesso nome il fine di libidine, è stato abrogato da tempo.
Oggi costituisce violenza sessuale anche un toccamento delle parti intime fatto a sfregio, per inibire o deridere la vittima, pertanto è un dato acquisito ormai quello della irrilevanza di un fine di libidine, di concupiscenza.
E veniamo alla configurabilità della “ioci causa”, del fine di scherzo: essa deve essere rigorosamente dimostrata, tanto che sono rarissimi i casi in cui viene riconosciuta nei nostri Tribunali, e non può comunque la prova consistere solo nelle dichiarazioni dell’imputato, che dica “stavo solo scherzando”, perché le parole dell’imputato per potere essere messe a base di una decisione favorevole devono comunque trovare importante riscontro nel contesto degli altri elementi di prova.
In parole povere, il fine di scherzo deve emergere come evidente per tutti, anche per la vittima che ne deve essere consapevole o deve aver partecipato allo scherzo, e detta prova deve essere ancor più rigorosa in un’ipotesi di toccamento di parti intime, ipotesi nella quale, a ben vedere, è già in partenza difficile immaginare un contesto scherzoso.
La Procura di Roma ha comunque impugnato la sentenza di assoluzione per erronea valutazione delle prove acquisite, nonché per travisamento dei fatti, giacchè il Tribunale avrebbe sbagliato nell’asserire che “si sarebbe trattato di un toccamento fugace, quasi uno sfioramento, avvenuto peraltro in presenza di altre persone. La parte lesa invece parla di un’azione che dura tra i cinque ed i dieci secondi, che non appaiono un tempo cosi istantaneo tanto che l’amica, senz’altro sbagliando nella percezione ma sicuramente fuorviata dal fatto che non si è trattato di un gesto di durata trascurabile, lo colloca invero nell’arco temporale di trenta secondi”.
Staremo a vedere, anche se fin d’ora decisione del tenore di quella assunta dal Tribunale di Roma preoccupano, perché rischiano di far fare importanti passi indietro alla tutela della intangibilità della sfera sessuale delle persone in caso di mancanza di consenso.
 
 L’articolo La sentenza di assoluzione per “palpata breve” è sbagliata anche in diritto? è già apparso su Il Corriere Nazionale.

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